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lunedì 13 aprile 2015

la scommessa



Matteo ha 28 anni e ormai da sei fa lo svuota cantine. Non è una sua impresa, ma di un vecchio amico di sua madre.
I primi due anni il lavoro gli piaceva per via dei soldi che si metteva in tasca. Poi aveva cominciato a esserne insofferente, poi a sopportarlo, adesso a non preoccuparsene. È il suo lavoro. È quello che può fare.
Se ne va in giro sul furgone lasciando guidare l’altro, l’albanese, Dijan, il partner che gli è capitato in sorte e che si tiene perché a quello gli piace di portare il veicolo anche nel traffico, anche quando non si trova posto, anche quando bisogna fare quelle manovre impossibili e faticose per entrare nei garage o districarsi fra vicoli e strettoie.
Dijan che si fa chiamare Giorgio. Un tipo che una volta aveva alzato da solo il furgone con le mani per cambiare una ruota.
Non parlano molto. Non parlano affatto. Fra loro solo i segni convenzionali del lavoro perché Matteo non raccoglie mai qualche invito che l’altro gli fa raccontando di certe avventure erotiche o commentando qualche donna che passa.
Non ha niente da dirgli a Dijan.
Si chinano all’unisono, infilano le dita sotto gli armadi e li sollevano. Sbuffando si inerpicano per strette scale e trovano velocemente il modo di fare uscire oggetti voluminosi da porte piccole e basse.
Lo fanno senza parlare. C’è poco da parlare. Bisogna solo faticare e parlare porta via fiato e energie.
Caricano tutto quello che ha un certo valore sul furgone. Le cose che non ce l’hanno non interessano il principale, per cui Matteo deve far capire al cliente che per quelle cose non hanno più posto oppure che le discariche non le accetteranno o che sono materiali non compresi nello smaltimento, nel prezzo.
Qualche cliente gli allunga un centone, a volte di più, se si portano via anche quelle o se potessero tornare a portarle via. Questo è grasso che cola. Nel senso che il principale glielo permette, possono occuparsene e prendersi i soldi, basta che a lui non gliene vengano rogne.
Matteo, quando accade, lo racconta sempre al principale o gliene chiede il permesso. Quello gli risponde sempre la stessa cosa: non vuole rogne.
A volte rimedia qualche lavoretto da solo, allora chiama il principale, l’amico della madre, e gli chiede se può usare il furgone. Quello gli ripete sempre la stessa cosa: ci vuole ritrovare il pieno e non vuole rogne.
Allora Matteo è costretto a scambiare qualche parola con Dijan, per farsi aiutare. Lo paga sempre, spesso anche di più del suo introito, basta che l’altro guidi.
Qualche volta si è chiesto dell’amicizia della madre col principale, ma quelle domande se le è tenute per sé. Non è affar suo.
Le domande se le è fatte nel periodo in cui era insofferente a quel lavoro e arrivava in ritardo o si dava malato. Allora il principale gli diceva che lui se lo teneva solo per l’amicizia con la madre, mica perché ne aveva bisogno, che se ne poteva pure andare…
Per la verità un po’ di bisogno il principale ce l’aveva, perché si fidava di lui e lui se ne era accorto. E per via di questa fiducia quello si era comprato un altro furgone e aveva preso un altro albanese, così poteva fare due traslochi al giorno.
Poi a Matteo gli lasciava le chiavi dei furgoni, per qualsiasi evenienza, come a uno che non lo consideri solo un facchino.
Ma voleva non dare importanza a questa fiducia, in cambio della quale non era disposto a dargli più soldi.
Matteo si era accorto di tutto questo, ma non gli avrebbe mai chiesto di più. A lui stava bene di lavorare, di mettersi i soldi in tasca e di decidere, ogni tanto, di prendersi una settimana di vacanza.
Ogni tanto Dijan ci aveva provato a dirgli che dovevano chiedere altro denaro perché in fondo avevano anche delle mansioni gestionali, non erano solo trasportatori, ma Matteo lo aveva sempre rimesso a posto bruscamente, a volte anche con male parole.
Da quell’atteggiamento, così deciso, l’albanese aveva dedotto che quello doveva essere in combutta col principale, anche per via di quella amicizia con la madre, e non protestava più.
Matteo ci aveva i soldi in tasca, non come i suoi amici, quelli che si erano messi a studiare. Sempre scannati, sempre spilorci, sempre con la bocca piena di parole e il portafoglio muto.
Non è che a svuotare cantine ci diventasse ricco, ma lui la birra se la pagava da solo e semmai ne offriva qualcuna a uno di quei geni che aveva voluto studiare.
Non aveva niente in particolare contro lo studio, semplicemente sapeva di aver vinto una scommessa col mondo: meglio caricarsi cose pesanti sulle spalle che mettersi a studiare, che vendere aria fritta.
Lui ci aveva provato. Sì per un paio di anni si era preso in giro da solo: studio, mi laureo, magari faccio il commercialista…  Faccio i soldi sui soldi degli altri! Aveva pensato. Faccio i soldi sulle tasse degli altri!...
Ma si era ben presto accorto che ne sarebbero dovuti passare troppi di anni prima di arrivare a un guadagno, e che la competizione era agguerrita: ma quanti erano gli iscritti all’università? E poi, la madre, non ce l’aveva un amico commercialista da cui cominciare…
In più: quel senso di becera povertà degli studenti, anche quelli coi genitori ricchi! Tutti miseri, tutti curvi, tutti infreddoliti, tutti pecoroni.
Una sera se ne stava in silenzio a sentire di malavoglia alcune ambizioni di un gruppo di colleghi in economia e commercio che nel frattempo frugavano le tasche per comprare una birra media in quattro, quando nel locale entrò un tipo coi capelli lunghi e la camicia aperta sul collo. Avrà avuto un paio di anni più di loro, ma sembrava uscito da un film americano per quanto sembrava sicuro.
Questo ordina un whisky molto costoso e offre una bevuta a due ragazze dall’altro capo del bancone che neanche conosceva, per le quali si accontentò di strizzargli l’occhio quando il barista portò loro le birre senza che le avessero ordinate.
Perché quando le due ragazze tentarono di sorridergli, quel tipo si era distratto a vedere i colleghi di Matteo che scollettavano e se ne era incuriosito al punto di avvicinarsi al loro tavolo.
Poi aveva guardato Matteo dritto negli occhi chiedendo quale fosse il problema. Matteo aveva risposto precedendo tutti, semplicemente dicendo: studenti.
Quello allora aveva annuito e, lasciando una grossa banconota sul loro tavolo, aveva sinceramente pronunciato la sola parola: Poveracci!
Poi se ne era andato.
Mentre i colleghi di Matteo gioivano ebeti per quel provvidenziale soccorso, lui era già schizzato fuori dal locale a inseguire quell’uomo.
Una volta raggiunto gli aveva chiesto con fiero impeto giovanile: Perché? Tu che lavoro fai?
Quello aveva onestamente risposto il suo lavoro: operatore ecologico.
Si era a metà degli anni novanta quando, per ragioni al di fuori della logica di Matteo, si era cominciato a chiamare le cose con una sottile correttezza che sapeva di presa per il culo.
Le donne di servizio, come la madre di Matteo, ora si chiamavano: collaboratrici domestiche. I negri: persone di colore. I massoni: lobbisti…
Matteo doveva avere un punto interrogativo disegnato sulla faccia perché quello si sentì in dovere di spiegare: Scarico i cassonetti, spazzo le strade. Il mondezzaio. Faccio il mondezzaio. Tu studia che è meglio.
Ecco. Questa pietà… questa tenera compassione spinse Matteo, più che la banconota di grosso taglio, più che la miseria dei suoi colleghi che l’avevano accettata, a decidere che lo studio non era un buon affare.
E ci aveva azzeccato di grosso!
Sei anni dopo, lui aveva già cambiato due macchine. I suoi amici giravano ancora con quella del padre.
Lui aveva una carta di credito. Lui avrebbe potuto vivere da solo. Non lo faceva per non lasciare sola la madre, però l’affitto lo pagavano a metà.
Lui era già stato in Norvegia, a Cuba e a Londra e chissà in quanti altri posti sarebbe potuto andare se non fosse che già gli era venuto a noia di viaggiare!
La sera del mondezzaio era tornato a casa un po’ incazzato, ma piano piano gli era cresciuta nell’animo una convinzione che lo aveva fatto poi stare bene.
Il giorno dopo comunicò alla madre che avrebbe lasciato gli studi. Quella se ne dispiacque, ma non lo dette a vedere e tirò fuori la storia di un suo certo amico, che lo avrebbe aiutato sicuramente dandogli un lavoro.
Così Matteo è diventato uno svuota cantine e mentre uno dei suoi colleghi di quel tavolo ora fa saltuariamente il cameriere, un altro è tornato a vivere al paese e un altro ancora lavora gratis in uno studio legale e lo chiama: stage!
Lui invece si concede il lusso, ogni tanto, di lasciare qualche bella banconota sul tavolo di chi gli faccia più piacere.
Matteo ha vinto la sua scommessa.

(marzo2015)

lunedì 5 marzo 2012

Fate attenzione!

Antonio Lusardi è seduto nella sua auto blu. L’autista guida in silenzio, senza scossoni, ma veloce nel traffico metropolitano. È sera, è inverno. Antonio sta leggendo alcuni giornali per la seconda volta. Sono della mattina, le notizie sono vecchie di ventiquattro ore, ma c’è qualcosa di cui Antonio non riesce a venire a capo. L’intera giornata spesa a fare l’equilibrista tra sindacati e industriali. Nessuna vittoria, l’odio delle due parti e l’impopolarità sui lavoratori. Ad Antonio manca l’aria e sente il bisogno di fare pipì.
L’autista accosta. C’è un piccolo bar deserto, chiede ad Antonio se lo deve accompagnare, motivi di sicurezza niente di perverso! Antonio preferisce andare solo. Il bar è d’angolo su un vicoletto buio, il ripostiglio delle cose sporche dei negozi scintillanti del corso. Antonio s’infila nel vicolo. Un po’ d’aria, un po’ di solitudine. La farà in piedi su un muro. Un po’ di libertà.

S’allenta il nodo della cravatta, appoggia una mano su un muro, si abbassa la zip dei calzoni. È stanco, è preoccupato, ma sorride quando legge sotto la mano “Piove, governo ladro!” e si libera.

Qualcosa si muove nell’oscurità, proprio sotto di lui, proprio dove si sta liberando. Antonio ha un sussulto, poi rimane pietrificato, mentre vede un viso sporco e una barba che s’asciugano con una mano. E una voce: “Le donne e gli uomini con la barba!”

Antonio prova a scusarsi, ha pisciato su un barbone, se lo venissero a sapere sarebbe una pubblicità tremenda per un politico del suo schieramento, ma quello non fa una piega e sdraiato per terra, fra i cartoni e la mondezza continua: “Lo stanno già facendo! Tu lo hai appena fatto! Le donne e gli uomini con la barba! Ma fai attenzione!”

Antonio equivoca quest’ultimo avvertimento: “Sono mortificato le vado a prendere delle salviette.” E s’infila nel bar. Dentro stanno facendo le pulizie. Antonio per poco non rovina su un cartello di plastica messo a bella posta da un inserviente. Quest’ultimo squadra Antonio che gli appare come un uomo ben vestito coi capelli arruffati, l’aria di chi ha appena visto un fantasma, visibilmente bagnato sul basso ventre e con la patta aperta. Antonio si scusa, ha bisogno di salviette. L’inserviente adagia il Mocio sul bancone e lentamente gliene procura una manciata: “Non l’ha letto il cartello?” Antonio legge: FAI ATTENZIONE – pavimento bagnato. Raccoglie le salviette e riesce nel vicolo.

Con grande sorpresa Antonio deve constatare che l’uomo, il barbone non c’è più. Rimane una scritta sul muro PIOVE GOVERNO LADRO e una colata d’urina. Poi inizia a piovere.

L’autista si precipita nel bar. Guarda l’inserviente e lo incalza: “Dov’è l’onorevole?” Quello sempre più indignato gli indica la porta sul vicolo. L’autista si sfila l’impermeabile e esce nel vicolo. Copre Antonio e lo porta nel bar, scalcia il cartello d’ostacolo al passaggio di due persone e lo porta via. Sul pavimento del bar appena pulito rimangono le orme sporche delle scarpe dei due avventori.

(2011)

lunedì 8 novembre 2010

L'uomo nel fosso

L’uomo nel fosso si chiede come ci sia arrivato. Ha il brecciolino nelle mani, un male a un fianco. Si alza sulle ginocchia e considera lo spazio.

È in un fosso. C'è l'erba a fili, è umida non bagnata. Sembra un fosso che costeggia una strada o una mulattiera. Forse più avanti un rospo salta via sdegnato. Non ci sono più i fossi solitari di una volta! Avrà pensato.

Sembra una situazione mica da ridere. Lo dicono le ferite e il brecciolino che brucia nelle escoriazioni sotto la pelle. Lo dice il fatto che proprio non dovrebbe trovarsi un uomo di notte, ginocchioni in un fosso.

Ma quell'uomo sembra felice. guarda un cielo conficcato da mille capocchie di aghi che poi sono stelle che brillano e rimano sulla sua assurda felicità di essere là.

L'uomo che si ritrova per sbaglio nel fosso di quella notte si sente bene. Dentro. E se ne sta lì a guardare e guardarsi unico spettatore di quello spettacolo semplice, campestre e gioioso.

Gli sembra, sembra, che non sappia parlare e che non si ricordi che lingua è la sua e quale quella al di fuori del fosso. Quale quella di tutti gli abitanti del mondo. Forse lui è caduto da una di quelle capocchie luminose su in alto. È un pensiero divertente che però, per fortuna, abbandona subito impossibilitato dalla gioia e dalla situazione a cominciare a costruire sui perchè e percome e perquando. Non vuole fare gli errori degli uomini ora che, chissà come, si ritrova, sembra a essere nato di nuovo o creato di nuovo.

Ora non importa, pensa. Ora non fa più nessuna differenza chi ero e chi mai sarò. Ora nulla che non sia questo fresco di notte d'estate. Può darsi, ma davvero non importa, che prima avevo bisogno di questo e magari non lo sapevo, non l'ho mai saputo e mai considerato. Lo ignoravo! E a chi me l'avesse detto avrei risposto che era un imbecille. Ma non importa e non è egoismo, che a nessuno serve sentirsi dire: avevi ragione tu!

La ragione è il fosso, l'erba e il brecciolino. La ragione è il cielo e il rospo e l'aglio selvatico che genera le stelle nel cielo!

O meglio: nessuna ragione. nessuna... nessuna, tanto non importa!

Perchè ora, ginocchioni, sbrecciolinato, sfiancato e umido si sente bene. Rigenerato.

Curioso. Curioso, si!

Perchè immaginiamoci di svegliarci improvvisamente da una notte profonda, da un abisso buio ed eterno. Immaginiamoci di aprire gli occhi e di non farci troppe domande su cosa abbiamo improvvisamente davanti agli occhi, perchè quel sonno sembrava non dover finire mai, anzi ne eravamo sicuri nell'incoscienza e nell'oblio che comunque mai, se esiste mai, ci saremmo più destati. Perchè sapevamo che non esiste essere desti, non esiste la possibilità e neanche la parola!

Invece all'improvviso, per il big bang o per Darwin o per Dio, gli occhi si aprono.

Catapultati dalla tenebra a un fosso verde e vivo. Estratti dall'inconsistenza al fresco piacevole di una notte serena e piena di stelle. Saremmo curiosi? Si.

Curiosi di quello che abbiamo di fronte e curiosi di noi stessi delle nostre sensazioni, del tatto, dell'olfatto, del fluire del sangue nelle vene.

L'uomo che si ritrova nel fosso si sente proprio curioso e beato.

Non sarebbe stata la camicia bianca con le maniche rovesciate di un giro o due a farlo ritornare a considerare le opportunità del suo essere lì. La camicia non la pensa proprio. Meglio scoprire l'ombra della notte. Le ombre, mille, della notte. Le loro differenze e le loro affinità. I giochi di chiaroscuro. Molto più interessante e chi può dir di no?

L'uomo, che noi sappiamo essere un uomo, perchè lui davvero non lo stava a pensare, curioso si beava delle ombre della notte e del refrigerio leggero di alcuni sospiri di vento e per quale teoria evolutiva o per quale indagine psicologica fosse lì, ancora felice di stare sulle ginocchia e nel fosso, non se ne cura granchè. E quanto è piacevole quel vago bruciore alle mani e quanto è in fondo vita sentir dolere un fianco!

Sa, a dirla tutta, che qualcosa in una qualche dimensione deve essere andata storta. Sa, in una parte ora più inerte del cervello, che nessuno può ritrovarsi di notte in un fosso per caso. Escoriato e in camicia bianca.

Ma sapere è un prodotto dell'esperienza e lui ora non ne aveva nessuna. Dovremmo dire, lanciandoci in misteriose materie universitarie, che quel vago e inascoltato sapere deve essere come una immagine riflessa. Come un sole che lo avrebbe illuminato su un passato prossimo e recente, ma quel sole era ormai tramontato e se ne dovrebbero fare di sforzi per recuperarne l'immagine intera e tutto un indotto su cui, allo stato attuale, si può scommettere se sia buono o pessimo.

Sta di fatto che tutto questo problema, mancava anche solo di un primo enunciato e comunque di tutti i dati. E comunque della volontà di prenderli in esame.

La matematica è un linguaggio complesso e forse rivelatore di una qualche volontà. L'aglio no!

(luglio 2010)

L'appeso penzola

L’amico penzolava dall’albero, appeso per il collo. Io lo seguivo con la testa come a una partita di tennis, scioccamente e sportivamente. Il cavallo doveva essere partito con troppa foga e questo aveva provocato quel macabro e ludico movimento. L’inerzia aveva fatto il resto e noi aspettavamo che le oscillazioni si fermassero, sperando che ciò non accadesse perchè quello sarebbe stato il momento di sciogliere la riunione e di tornare a una vita normale e quotidiana. Ragionavo sul tempo scandito da quel corpo ormai esanime, il tempo che era finalmente vivo a causa di un morto e per la ragione che quella morte, eseguita in quei termini, rendeva la giornata diversa e perciò gradevole a me e a tutti gli altri cittadini di Hillbilliesbrough. E ragionavo sul non tempo che era poi tutta la vita prima e, probabilmente, dopo l’impiccagione di Rufus Elias, tutta la vita a seguire. Non sarebbe infatti cambiato nulla. Un altro Rufus sarebbe giunto prima o poi a depredare e stuprare e impaurire tutta la comunità, così come era favorevole l’ubicazione della nostra cittadina a raccogliere delinquenti e a difenderli da un intervento di una qualsiasi autorità. Già perché la legge a Hillbillies era nascosta dietro alla stella dello sceriffo Grant, un ubriacone settantenne dedito a ogni vizio. Non una cattiva persona, ma davvero inadatto al mestiere. Il vecchio Grant! Aveva il naso rosso e tentava inutilmente di reggersi in piedi anche quel giorno e mi era parso contorcersi in una smorfia di dolore mentre la corda si stringeva attorno al collo di Rufus. A questo punto arrivava il suo coraggio. Lui era il più imbambolato di tutti quel giorno, ma credo fosse l’unico a desiderare che tutto finisse per andare a scolarsi finalmente un cicchetto. Perché Don Douglas, il proprietario del saloon era lì anche lui a godersi il fatto e non avrebbe riaperto fino alla sepoltura di Rufus, arrabbiato com’era per tutte le angherie che aveva dovuto subire da quel pendaglio da forca.

mercoledì 5 maggio 2010

Giugno










All’improvviso si tirarono giù i veli che coprivano i quadri e tutto ciò che si poteva vedere erano barche, spiagge e mare. L’odore degli stabilimenti era quello inconfondibile del fritto di pesce.

(2002)

Maggio

Qwerty vedeva il mondo proprio come un esperto di informatica: un enorme ammasso di fili, un gomitolone. Ne comprendeva le proprietà comunicative, lo scambio di informazioni. Ma gli sembrava un sistema assai lento, con troppi intoppi; tutto quello che comprendeva non lo vedeva all’atto pratico. Le possibilità. Quante possibilità! Dove sono? Del resto le idee viaggiano a velocità due volte superiore alla realtà. Quest’ultima poi ha un moto del tutto imprevedibile con degli scatti fulminei che non ci si aspetta da una struttura così pachidermica. Lezioni ne aveva tutti i giorni: si può fare tanto, si fa poco. Un susseguirsi di considerazioni contrastanti rendevano deprecabili o illuminate le scelte di un modesto lavoratore che aveva abbandonato le speranze dell’alta società, come quelle del finanziere o manager o geniale imprenditore, come quelle di chi campava di espedienti. Lui era ricchissimo. Era. Rifiutò tutto quello che gli spettava di una grossa eredità. Mal vestito camminava dritto denotando un ottimo portamento e un eleganza naturale e rifletteva sul mondo. Amava i talentuosi, loro avevano il problema risolto, schiavi della loro arte fossero pittori come calciatori. Chi ha talento non ha bisogno dei cavi, comunica da se e viene guardato. Che belli erano i tempi in cui, più giovane suonava il pianoforte e sognava di diventare un musicista. Qualsiasi problema, ricordo, emozione, passione accompagnava le mani e l’animo sulla tastiera e arrivava il conforto della melodia. Si accorse di non avere talento e le note diventarono rumori.

Una sera fu invitato ad una festa. Una bella festa elegante. Una bella casa, si era detto già all’ingresso, confermando l’intuizione poi nei saloni. Jazz morbidissimo, fumi di sigarette e sigari, fumi di alcool e leggere risate avvolgevano gli ospiti rendendoli immobili e dinamici come fanno le atmosfere con le figure nei quadri di Lautrec al Moulin Rouge, nei bar, al circo. Ottimo il cibo, consumato in piedi magari, del resto di persone ce ne erano tante. Così si poteva passare inosservati anche senza parlare con nessuno come Qwerty, forte del suo aspetto privo di ogni caratteristica che potesse risaltare all’occhio nel bene o nel male. Mentre i professionisti ostentavano le proprie professioni in dialoghi professionali catturando folti gruppetti di pubblico astante, attonito, afono e inebetito (fin dalla nascita). Gli artisti convinti e fieri e sicuri sottintendevano le loro qualità per scendere dall’ispirazione a regalare momenti di partecipazione ai miserabili attratti (intanto l’arte veniva alla luce in cucina). Le donne appariscenti creavano fortezze di personalità e virtù senza considerare che gli occhi degli ammiratori già avevano preso la loro parte, bottino da spartire al ritorno a casa accompagnato da colorite e ferali battute. La padrona di casa gioiva di far partecipare tutti gli amici delle sue fortune e per le danze del movimento non si era mai avvicinata con l’orecchio alle feroci parole dell’invidioso che sovvertiva quel sistema di generosità con i suoi discorsi sulla presunta di lei solitudine che la costringeva a questi tipi di appuntamenti. Fuori trequarti di luna guardavano nel lussuoso appartamento quel tipo che si era fissato qualche secondo a posare gli occhi su di lei. Quel tipo che era Qwerty. Passarono un paio di ore e il tipo ricapitato davanti alla finestra non vedeva più la luna oramai nascosta da qualche palazzo stanca di fare baldorie. Noti studi di sociologia riguardo all’appartenenza lo tradirono però e una ragazza ruppe la sua concentrazione.

Non c’era bisogno di chiedere se si divertiva! Si divertiva moltissimo! Anche se lei aveva notato che non parlava con nessuno e che beveva da solo. Fece capire con scrupolosa grazia che andava tutto bene. La ragazza pensò: “Vai a fare del bene a un somaro!”.

Gli invitati sfoltivano qualcuno silenzioso, altri con altisonanti congedi. Un bicchiere di vino in più spinse Qwerty ad accarezzare il pianoforte, un battito di ciglia e stava già suonando Laura di Charlie Parker comunque attento alla pressione delle dita. La padrona di casa gli passò vicino lo accarezzò su una guancia e si allontanò lasciandolo ricadere nel piacere di quella esecuzione di cui peraltro si sarebbe pentito amaramente. Infatti si rifece sotto la ragazza del somaro. Il buio spense i grandi lampadari del salone nella sua testa. In questa denti bianchi sorridevano maligni, inquietantemente capaci di sorprendere una vittima che si muoveva a tastoni sussurandole frasi ricoperte di miele appiccicoso. Non doveva lei così carina di piccola statura, senza trucco, senza orecchini, capace di parlare; no, no, no, lei no. La uccise più tardi. Ma non la baciò neanche. Lo trovò sconveniente. Poco educato.

Vedi l’uomo che creatura prodigiosa! Avrà pensato, quella sera, che quello taciturno era il prezzolato pianista con l’ordine di cominciare a suonare tardi. Finito lì. Al massimo l’artista sarà arrivato alla critica dell’esecuzione. Bocciata sarà tornato ai suoi fans. No la donna va a curiosare. Ed ora Qwerty doveva girare con il portabagagli con due cadaveri.

(2002)

Aprile

Aprile non sempre soddisfa il cittadino con un tiepido abbraccio, ristoro per il rigido e scheletrico inverno. Quella notte però, dopo secchiate di pioggia intensa (viene da pensare che quell’anno Aprile volesse soddisfare il cugino di campagna), era proprio calma, tranquilla, pacifica e sognante; sembrava che la città tentacolare fosse tutta raccolta in una di quelle ampolline di vetro che capovolte lasciano cadere la neve, che capovolte lasciano tuffare in banalissime e buone fiabe. Dove le città hanno due pini, tre strade, quattro lampioni con luce rossa e calda senza neanche una battona. Beh quella notte i lampioni erano caldi e confortevoli e nelle strade di periferia c’era pure chi ci passeggiava sotto, ma nell’ordinato quartiere a due passi dal centro, con le case severe con le facciate pulite, le strade erano ben pattugliate. Chi dorme lì, nelle stanze dagli alti soffitti, si lamenta del crimine che dilaga, ma chi rimane sveglio potrebbe testimoniare della sua solitudine in mezzo a tante forze dell’ordine. Stonava in effetti la presenza inopposta di quegli eserciti. Una bella notte che era da raccontare agli altri che non l’avrebbero creduta: il blu profondo, accennate le stelle, neanche un rumore di veicolo vecchio e malmesso, c’erano solo auto nuove; bello il metallo, il cemento, gli alberi, i lampioni ovviamente, l’ordine e perché no, belle pure le battone. Così un tale si avvolgeva in un metallo rosso per coprirsi da tutte quelle cose così tenere, ma con dei vetri per vederle e con quattro gomme rotonde per muoversi nell’ampollina; senza girarla; la neve non c’entrava proprio niente. Da sotto quel vetro muoveva il naso per accorgersi del movimento e della luce e muoveva il volante per evitare ostacoli e affrontare ciò che celavano. Rosso, fermo; verde, gira e avanti. Si sentiva un uomo ora e protagonista. I negozi chiusi, i semafori lampeggianti. Il vertice del cono in cui il Demiurgo rovesciava i colori, aliti, atomi e altre cianfrusaglie era proprio quella macchina dove noi ora vediamo quello che vedeva. Quel tale che respirava così tanta considerazione e respirava il tempo che stava per dimenticare quello che doveva fare. Anzi non gliene fregava più niente, immerso nel fluido dell’essere nell’essere. Perfetto fino al punto di sentire quel timore che completa il gusto di ogni emozione. Chef sublime. Pensava: fermatemi e vi farò vedere chi sono io veramente e quali pesi porto e dove pendono i miei carichi e quanta pace c’è stasera. Belle divise, bella paletta. Un posto di blocco da imitare, con la volante messa di trequarti ad invitare a farle attenzione, ma senza pressione. Era felice! Lo stavano fermando e sentiva i campanellini lontani spazio e tempo di Babbo Natale. Accompagnavano la sua bocca ad un compiacente sorriso, i suoi occhi a brillare un momento solo per non essere fuori luogo.

“Patente e libretto di circolazione.”

Patente e libretto di circolazione? Quel pupazzo con le lentiggini e l’accento napoletano forte del fatto di essere di coccio con il fischietto dietro ai piedi, diceva proprio quello che era supposto lui dicesse. Il carabiniere prese il documento mentre il tale che ci sta prestando gli occhi frugava nel cruscotto per cercare il libretto. Non lo trovava. Non poteva. Non c’era! Ma la disposizione delle cose era troppo corretta per generare caos lì e Qwerty, il nostro, ne aveva tutta la consapevolezza.
Cambiamo visuale. La prospettiva del pupazzo non gli permetteva certo di vedere le sue lentiggini, così tentava, e ora noi con lui, di avere una sguardo scaltro e di farsi forte di una esperienza tradita dalla sua giovane pelle. Fissò il tizio il momento di classificarlo in quello schedario da ufficio appena aperto che era la sua testa. Qwerty sembrava proprio un tonto con l’occhio pieno di speranza e di rispetto per l’Arma, un pizzico di paura, una serie di scuse pronte e la voglia di essere onesto.
Soggettiva principale “Q”. Intorno tanto silenzio, mite. La radio dell’auto pattuglia richiamò l’attenzione dei militi nei secoli fedeli su un incidente che davvero doveva essere più allettante di quella routine. Non esitarono ad andare a vedere. Il lentigginoso riportò la patente al tale ricordandogli l’uso della cintura di sicurezza con un velato rimprovero.

“Noi dobbiamo andare. Tanto si vede che lei è una brava persona. La cintura…però!”
L’impassibilità è una dote impagabile. Qwerty non si scompose neanche al pensiero che il tale che aveva rubato l’auto non gli avesse lasciato i documenti. Sono cose che capitano.

Del resto i pensieri sono altri. Quelli che ti portano via il tempo, quelli intensi tanto che le cose che accadono sembrano finte o rimediabili. L’amore non c’è. Ci sono però queste creature strane, belle: le donne. I momenti hanno senso con loro. I momenti brevi, brevi, brevi. Tutto il resto è nella ricerca di quei momenti brevi. Solo. Così doveva essere Qwerty da tanto tempo. Perché? Il motivo era nella discrezione, sì lui era discreto. Aveva tante altre colpe però, come la necessità di concentrarsi, le sue manie, le sue follie, le cose a cui teneva, per cui viveva, la sua colpa era la sua vita. Credo che non si scioglierà mai il dubbio se non fosse fascinosa per niente o se lo fosse così tanto che le donne ne avessero paura. Non si scioglierà mai anche per mancanza di volontà del diretto interessato. Quella sera tuttavia era stato con una ragazza ed era felice anche per questo. Di contro considerava deplorevole aver perso tempo con lei così, solo per illudersi di non essere solo. Non c’era niente di particolarmente tremendo nella sua solitudine, era come tutte le altre. Anzi lui spesso non ci faceva neanche caso e quasi ne andava fiero. Andare avanti senza nessuno, con quella infaticabile divoratrice di animi che è la coscienza a premere sull’imboccatura dello stomaco, sullo sterno, a volte sulle tempie, altre nel naso... Sarebbe stato un grande compagno capace come era di attenzioni, affettuosità e con quella giusta dose di creatività. Invece era lì pure lui adagiato nella sua parte di mondo a fare. A fare. Poi che ha avrà avuto da fare?

Aveva sentito la pelle. Aveva sentito suonare il respiro. Aveva ascoltato un’anima vibrare, abbandonare il mondo, lasciarsi alle spalle le afflizioni, dimenticare le immagini viste e accettare l’astrazione che uno come lui, lontano dai prototipi di questo secolo, poteva invitare a provare. Quindi era annegato nel suo stesso profondo. Le corde della sintonia, della sinfonia, delicatamente smettono di oscillare e torna la vista e con lei l’orrore.
L’uccise e la mise nel portabagagli. La odiò con forza e la uccise. L’uccise e con lei l’idea e la povertà di tutte le donne, misere, piccole, senza vergogna. Il male che portavano, si disse, di avere ucciso con lei. La uccise. Ora però era ancora più forte perché era l’esercito stesso che lo aveva riconosciuto essere una brava persona.

(2002)

giovedì 18 marzo 2010

il perimetro della coscienza

2002
Un appuntamento insolito se si vuole, ma oramai non era certo più il luogo, in senso esteso, che mi poteva scuotere da quella disposizione d'animo perennemente in bilico tra il disprezzo di me stesso e il disgusto per gli altri.
Comunque attendevo in piedi, la testa rivolta a terra, in quel campo da pelota basca che sarebbe stato pronto già da dieci anni, ma che non aveva mai più avuto i permessi di non so quale ente del cacchio.
Non c'era luce, quindi, se non quella che filtrava dai vetri infranti della struttura, ma anche questo non poteva aumentare un disagio che nasceva dal mio stomaco più che venire da stimoli esterni. Non ero armato. Non potevo: non avevo un soldo e nessuno era più disposto a darmi fiducia, ma non pensavo che avrei rischiato più di tanto e pure fosse stato, prima o poi capita a tutti.
Avrei dovuto concentrarmi, essere pronto, radunare le forze per non farmi sorprendere e per concedermi la maggiore lucidità possibile, invece...
Su quella mescola di asfalto sintetico, tra il brecciolino dell'usura di nessuno e qualche cartaccia portata dal vento o qualche fumatore di spinelli, riapparve un'altra volta quel corpo magro e agile.
La figura filiforme di una dea dei miei stivali che mi confortava l'anima durante il suo pensiero e mi avvelenava i pensieri quando tornavo a riconsiderare il tempo e lo spazio.
Camminava dritta nel salone dei desideri di quell'artificioso e costruito mondo che scavalcava l'oceano da un punto incerto dell'infinito, trafiggendomi la fronte fino alle rocce più spigolose di questa mia brutta e corrotta capoccia. C'era un rettangolo che avviliva le geometrie provate del globo terrestre, nelle quali nessun bastardo pappone succhia realtà m'avrebbe più convinto a credere.
E c'era sto salone col soffitto basso, con la luce rossa, coi passi di quei sandali da schiava che s'arrampicavano sulle sue gambe e non saprò mai se soffrivano più i polpacci, i lacci o io che l'invidiavo a stringere così bene due oggetti così belli e così importanti.
Se poi l'impotenza dei miei movimenti fosse dipesa dal fatto che potevo essere legato ad una sedia, o a quell'oblio chiamato dagli psicologi terrore notturno o presso di noi miseri di tutto: indaco, questo non lo so.
Sta di fatto che mi contorco ancora se sposto una frequenza e una velocità in testa, nel vederla passare davanti ai miei ricordi e penso che sono spasmi ciò che chiamo: "perchè non credo in me!".
Comunque non nego che anche in quel momento, mentre la luna si prendeva gioco della mia ombra e faceva credere ch'io fossi un giocatore di quello sport con le ceste, mi facevo schifo da solo, da qualche altra parte nei liquami più acidi dell'anima.
Camminava e ondeggiava i fianchi, brevemente, quello che a me basta, che di più sarebbe troppo, per farmi strisciare di voglia di stringerli. Una vita perfetta (bel doppiosenso!), la sua: snella e disegnata dall'equilibrio dei desideri di ogni uomo.
Ci passasse allora sopra di me tutte le volte che crede, almeno questo vorrebbe il mio egoismo. Venisse a calpestare st'inutilità come si da un calcio a una lattina per strada, senza necessità, senza voglia, senza ricordo…
....arrivò l'uomo, quell'avvocato coi suoi scagnozzi. Il prezzo lo fece lui, per me era uguale non li avevo. mi chiese adirato allora perchè l'avevo voluto incontrare. Risposi che era per amore che la volevo comprare.

(nella foto Silvia Salvatori)

lunedì 8 marzo 2010

l'epopea di Jubel e la musica

2004
Dev’essere stato quando gli angeli si baciavano tra loro, sulle volte, tra le nuvole o poco dopo, quando suo padre, invidioso, uccise il fratello. Mentre Astaroth cambiava sesso e nome sotto le colonne d’Ercole… Mentre Mani diceva o così o non se ne fa niente. Comunque quando fu, Jubel si mise questi fogli in tasca sicuro che un giorno io avrei capito l’antifona.

Quello che so è che a un certo punto prese una nave mercantile che dall’Africa portava carichi di banane. La prese nel senso che ne fu il capitano. Poi un giorno disse al suo già esiguo equipaggio di non imbarcarsi, che questo viaggio l’avrebbe fatto da solo. Unico a protestare fu Tomasso, gli altri credettero giusto fidarsi.
Comunque partì, solo e con un milione di banane. La chiatta salpò per il nord, il resto lo dobbiamo immaginare.

Ne riebbi notizie dall’India che stava a Calcutta. Con un aria severa e più magro del solito, faceva il medico, ma con sempre negli occhi quella cosa lontana e misteriosa da fare. Jubel guardava negli animi di quei bambini che non sapevano il male che avevano. Che gli arrivavano lì davanti spinti dai genitori o dalla curiosità. Ebbe per loro più parole che rimedi.
Una sera all’ultimo della fila confidò che doveva proprio andare. Il bambino lo squadrò e alzò le spalle.

Fra l’aria polverosa e l’asfissia per la lontananza dal mare, Jubel divenne uomo politico a Kabul, con tutti i problemi relativi al suo nome. Ce la mise davvero tutta. Tornava a casa con i morsi dell’infiammazione alla gola, per aver cercato di far valere le sue ragioni in quelle assemblee dove sembrava che per gli altri contasse solo il potere della voce grossa. Gli acuti, le tamburellanti opposizioni prive di logica, ma ridondanti di ritmo, instancabili lo sopraffecero e di notte mise una coperta sulle spalle e s’incamminò stanco e disorientato.

A volte faceva molto freddo, ma ebbe davvero la sensazione di essere stato dimenticato mentre forgiava il metallo a Minsk. Si sentiva uno fra i tanti. Uguale e nessuno, appoggiato lì dove lo svago è semplice e la gente tanto robusta quanto impalpabile. Fu spesso vicino a raccontare una delle sue storie, visto il clima della compagnia. Visto che quelli, intorno, era come se non ci fossero, ma il rischio di apparire, se pur un minimo, era troppo grosso da correre. Il rischio di lasciare segni, di ferire quel tempo con una rappresentazione di se stesso. Lì si stava rigenerando. Ritemprando. Ne approfittò. Una mattina la forgia non incontrò le sue mani. Poi ne vennero altre che tanto erano uguali.

Fischiettava mottetti sull’autocarro, mentre se ne veniva in su e in giù per i Balcani. Grattava la schiena a quella pelle vecchia di montagne e gli fischiava i mottetti e gli strambotti. Quando poi si fermava a bivaccare ascoltando la notte e corteggiando la luna, recitava due o tre versi liberi, perché solo la terra lo potesse sentire. Con la gente del posto non s’arrischiò mai ad avere rapporti maggiori di quelli di lavoro. Lui arrivava, caricava e ripartiva veloce come un saluto e dolce come mezza sigaretta, fumata con finta noncuranza. Per questo fu rispettato da tutti. Per questo, quando non lo videro più arrivare, nessuno se la prese e tutto continuò normale.

A Magonza la situazione si complicò. Non fu davvero una grande idea quella d’infilarsi in una disputa teologica. Pensava che sarebbe andato via presto e invece quelli non lo lasciarono libero. C’era da risolverla, disse uno dei più anziani, lì erano abituati così e non certo uno straniero di passaggio poteva cavarsela con una soffiata di naso. Non lo avrebbero permesso. Jubel allora dovette mentire un po’, pensò che era per un buon fine e per salvare la pellaccia, e di sé raccontò varie storie, si diede arie, tesse le laudi per qualcuno. Si fece notte e il concilio decise di continuare, ma solo dopo una rinfrescata di birra. Dio volle che quelli s’ubriacarono, allora Jubel uscì di soppiatto e svanì nella nebbia, così come c’era arrivato.

S’era fatto un’altra idea dell’Italia. Non fu la sua vicenda nelle raffinerie di Falconara un’esperienza del tutto negativa, ma il panorama e l’aria erano davvero offuscati dalla sua stessa fonte di lavoro.
Quantomeno mangiò sempre bene e c’era il mare. Mangiò così bene che quasi dimenticò il milione di banane che lo avevano sostenuto nel primo viaggio.
Ma già questa del paragone con le banane fu una prima avvisaglia di una serie che capitarono.
Dapprima nella raffineria s’accorse di una donna di Kabul, poi s’imbattè in degli uomini che portavano notizie delle condizione disagiate di certi bambini a Calcutta. Così prima che qualcuno fosse corso a chiedergli di raccontare storie o di grattargli la schiena recitando poesie, prese l’abrivio e ripartì.

Ed ecco che un giorno, mentre sto seduto nella mia cella del monastero di Sangallo a scrivere alcune frottole, ti sento un tizio alle spalle che fischietta una salmodia di qualche tempo fa. Io non sono un tipo che fa melodrammi e quindi mi giro e vedo Jubel che allarga gli occhi e mi riempie di feste e sospira allelujah!
Poi si caccia una mano in tasca e mi porge questi fogli.
Che notazione! Che notazione stupenda!
Finalmente capisco la musica.
Poi Jubel cambia espressione si volta e riparte.

sabato 6 marzo 2010

il giovane e il poeta

2005
Giovanni faceva colazione. Era perfetto col cappuccino in bocca, sulla sedia di plastica, con lo zaino per terra appoggiato su una gamba. Con la maglietta di protesta, i pantaloni corti, il cuore pronto a ricevere emozioni. S’alzò, pagò, uscì. Ce n’era voluta di fatica per arrivare lì. Le telefonate, le indiscrezioni, i soldi per il viaggio, il viaggio. Prese una lunga boccata d’aria e guardò nel vuoto. Sei passi lo dividevano dall’uscio del bar al portone del “Poeta”. Il suo Poeta, quello che gli aveva regalato la comprensione che nessuno al mondo era mai stato capace di dare. Lo doveva conoscere. Gli doveva dire che la pensavano proprio nella stessa maniera, che le cose che scriveva sembravano stampate sulla sua pelle coi caratteri inchiostrati della sua anonima vita. Fece i sei passi. Era davanti al citofono. Il muro dell’edificio era vecchio e sporco come nella sua testa. Un po’ d’edera ribelle camminava su quel muro, fuggendo l’odore acre di una pisciata notturna. Qualche nome straniero, numeri d’interni e i doppi cognomi delle coppie. Un portone uguale alla sua testa, piuttosto normale. Suonò dove doveva.
“Chi è?” una voce di donna, anziana.
“Salve mi chiamo Giovanni e sono qui per il Poeta…”
“Il Poeta?”
“Non abita qui Norberto Fratta Pumpulit?” fece avendo paura che le informazioni ricevute fossero state erronee.
“Ah, il “Poeta”! Ah, ah, ah, ahhhhrffforgf arf, ah, ah…”
“Sta bene?” Giovanni non capiva se la signora rideva o stava per morire.
“Si, si… mi perdoni… il Poeta: ah, ah, ah cough, cough, arf far farargh, ah, ah…” e aprì.
L’androne buio e cupo. Sapeva d’umidità e di clandestinità. Forse le persone di quel palazzo non si conoscevano neanche. Ci vide entrare persone da sole di notte, o qualche fortuito incrocio tra condomini che non si salutano e preferirebbero non incontrarsi mai. Una bicicletta stava sbracata sotto un sottoscala con la ruota davanti che lo indicava inquisitoria e stanca. Gradini di marmo lisciati dagli anni, era un palazzotto antico, sofferente, esausto di riparare ingrati pigionanti scomodi e egoisti. I gradini gridavano: “Abbiamo visto più piedi noi che mani il piede di San Pietro! Ma non se ne accorge nessuno.” No qualcuno se ne accorse ed era Giovanni il sensibile che amava le poesie del Poeta e da questo amore confortava il dubbio su se stesso di sensibilità. Comunque li salì. Arrivò al piano leggendo i campanelli e ponderando che profilo avrebbe dovuto mantenere. In verità erano mesi che aveva deciso come comportarsi, ma ora gli sembrava cambiare tutto, perché ora era il giorno da vivere. Suonò a Castiglione-Fratta Pumpulit. Un classico Din-Don.

Aprì una vecchina con lo scialle viola sulle spalle e il sorriso sgangherato. Fu pervaso subito da un odore di mobili vecchi. Di elettricità vecchia, di biscotti fatti a casa e vecchi. Di mobili polverosi, di libri, di velluto sulle poltrone, di mobilie calde quando fa caldo e non abbastanza calde quando fa freddo.
La vecchina si limitò a fare rumore senza aggiungere parole:
“Ah, ah, ah, arfargha fargh, cough, ah, eh!”
Si avvicinò da un corridoio una donna più giovane della precedente, ma matura e un po’ scapigliata. Gonna e passi sonanti, lo guardò e indagò la vecchina:
“Il signore è un tuo amico, zia?”
“No, ah, ah, è uno che cerca il Poeta! Ah, ahnfarf, ah, ahhhhhhhrrrrgh…”
“Vorrei parlare con Norberto, signora, il Poeta …”
E allora la nuova donna:
“Il Poeta? Il Poeta! Il Prrrrrunfffff, ah, ah, AH, AH, ah, ah, mi scusi…il Poetarfhagarg, ah, ah… un momento, ih, ih. Adelinaaaaa!” Chiamò nell’aria vecchia di quella casa dove evidentemente si rideva di nulla!

Seguì la donna per il corridoio con le stampe di Roma antica alle pareti, le consolle strette e alte stile falso impero, dove s’affacciavano porte a vetri opachi e misteriosi, sul pavimento di grani di marmo peperino. Entrarono nell’ultima porta a sinistra, l’unica aperta e dentro c’era Adelina che stirava.
“Il signore vuole conferire, ah, ah, col Poet…. Argh, ah, ahhahhà hà, ha…!”
Adelina lo squadrò coi capelli impennati dalle forcine. Esitò un momento e poi, inevitabilmente:
“Il…il…il…PooooOOOOOooooOOOh, oh, oh, uah, haffa fa, ah…” Dopo due minuti in cui le donne si sganasciavano piegandosi sul ventre e tenendoselo stretto tra le mani, Adelina si ricompose un poco, tradendo l’accaduto col rosso delle guance e con gli spigoli della bocca.
“Faccio strada, prego, ih, ih, ih….”
Giovanni uscì nuovamente nel corridoio e osservò la vecchina dall’altra parte che ancora rideva e sbatteva i pugni su un tavolo dell’ingresso. Credette di aver sbagliato qualcosa, ma oramai era lì e doveva continuare. Seguì la domestica per una specie di tinello, presero per una porta e poi su un ballatoio. I panni appesi si riversavano in un cortile interno soffocando tre palme nane. Bussarono ad una nuova porta.
“Signor Poetaaaaaa! Ah, ah….” Adelina non trattenne un accento marcatamente romano poi aprì e disse: “C’è questo giovane per voi…. Poeta, ah, ah, ah, argh, arf (etc.)…”
Giovanni entrò.

A questo punto fra il culmine delle emozioni ammucchiate nei mesi scorsi, la stanchezza e l’incognito del viaggio e questa accoglienza bislacca uscì il più timido dei suoni dalla bocca di Giovanni: “Salve, Maestro!”
Quello si girò distraendosi un attimo dai suoi affari e guardò l’ospite di traverso tra l’infastidito e il meravigliato.
“MAESTRO! Dici a me… maestro… AAAAAAHHHHHHH, AHHAHA, AH, ahhhhh, ahhhrrrrr, ah, ah, ah…..” Giovanni lo riconobbe non si era sbagliato! Rimase impietrito nel non capire tanta ironia; ebbe voglia di fuggire, ma non lo fece. L’altro, nelle convulsioni del riso, si rovesciò una tazzina di caffè addosso disgraziatamente appoggiata sui cuscini del sofà. La sua squadra di calcio alla playstation subì un goal. Fu questo un motivo per tornare alla realtà.
“Cazzommerda!” Cantò il poeta.
“Prego?” Chiese Giovanni.
“Ho perso!” Sentenziò il maestro. “Una partita?” Chiese.
“Io veramente non c’ho mai giocato, io non ho mai… io… il mio interesse è la lettura… io sono venuto qui per…. per conoscerla… per ringraziarla delle sue parole… io… Amo la poesia: la sua poesia!”
“La mia po… la mia po…po….po…po…poerfargh, arf, ahhhhhhhhhhhhhh, auhhhhhhhhhh, uuuuuuuuuuhhhhhhhhh…”
Giovanni avrebbe voluto morire lì, in quell’istante. Ma il caso è avverso e così non volle. Invitato a farlo si sedette su una sedia di legno da osteria e si lasciò bersagliare dai dardi dello sconforto. Poi riprese le forze e il coraggio e protestò: “Fate ridere anche me?”
S’affacciarono le tre donne sulla soglia della porta mentre il Poeta, inciampando fra le risate, s’arrampicò su una libreria e ne estrasse un libro. Il suo libro di poesie, quello che aveva regalato speranze a Giovanni. Glielo porse e rispose: “Sì! Leggi questo! AHHHHHHHH, argh, sarf. Sfruuuuuuuaaaaahhhhhh. Ah, ah… (Etc.)” e a questo suono di pancia che non trattiene l’ilarità s’unirono le donne e il coro suonò il gospel più divertito del mondo.

giovedì 4 marzo 2010

il signore degli avanzi.









2001
Sedeva composto su una poltrona dallo schienale alto, il signore degli avanzi, vicino ad un telefono. Così l’apparecchio squillava e lui disponeva della sua vita e di quella di alcune anime parlando coi bassi pieni, sonori, potenti del torace. Dall’altra parte della linea ascoltavano e obbedivano... Imponente anche da seduto, dominante. Sembrava lo si vedesse attraverso una lente tanto era grande. Due mani enormi posate sulle ginocchia facevano sudare freddo l’interlocutore al minimo movimento. Un misto di accenti propri di altrettanti dialetti facevano intuire un passato di esperienze. La barba bianca; la pelle come la sezione di un albero, a contarne i giri se ne sarebbe cavata l’età. Ci sentiva poco e vedeva peggio. Gli occhi grigi e bovini oscillavano pesanti, lentamente sotto delle folte sopracciglia nervose che formavano archi. Ogni tanto tendeva i nervi del viso premendo le orbite tra le tempie e gli zigomi per accompagnare il disgusto delle sue parole. Costruiva eccessi, memoria di un carattere inopponibile nel bene e nel male. Anziano, malato, consumato, debilitato non concedeva una possibilità all’incoscienza della piena capacità dei sensi di qualsiasi essere vivente. Dietro di lui i fulmini provavano la resistenza della terra, la pioggia bombardava il suolo, il sole spaccava i campi, la grandine distruggeva i raccolti, le bombe dividevano l’aria e la veduta era a perdita d’occhio.

“Un bel tacere non l’ha mai scritto nessuno!” Mi disse e tutto questo mi fece pensare alle mie qualità. “Bisognerebbe sempre sentire qualche rumore se no si finisce a pensare ai draghi, alle lingue di fuoco; il silenzio angoscia e porta ad avere pensieri orribili che spaventano chi torna a percepire suoni e offendono la sua moralità e spiritualità; e sono inutili le urla. Il drago non ha orecchie per questo è invincibile. Si frappone tra la coscienza e l’orgoglio, in quel turbine nascosto fra i movimenti perpetui della mente, nella discarica della fantasia che ci crea e che rifiutiamo. Sotto le cantine dove si muovono gli iniziati, si nascondono culture che nascondono verità inaccettabili. E gli orrori che si maturano nell’animo aspettano l’indebolimento dei nostri sensi, il sopraggiungere del silenzio e l’oscurità. Ci abbracciano con calore e ci baciano con le labbra rosa e umide... morbido ovunque… lingua di un serpente, poi di fuoco, poi di un drago.” Girò solo le pupille grigie, riconobbe la mia sagoma: “Parlo con chi sa parlare con me! Un bel tacere non l’ha mai scritto nessuno.”

Il signore degli avanzi allungò verso di me una mano da cui penzolavano delle chiavi di un’auto. “Andiamo a prendere la mia bara.” Non so a quante persone sia capitato di sentire una proposta del genere. La reazione più probabile che mi venne in mente fu quella di non dire niente e assecondare il mio interlocutore. Viaggiammo per un’ora e mezza verso nord, arrivammo in una campagna collinare e verde. Nella tenuta i cipressi ci accompagnavano ai margini del sentiero. Caricai la bara sulla macchina, la assicurai con delle corde elastiche e la coprii con dei cellophan e dei giornali.
Il viaggio di ritorno ascoltai in silenzio la storia di un fulmine che il destino in un giorno di tempesta aveva lanciato contro un alto cipresso abbattendolo. La legna ricavata da quel tronco era il motivo del piacevole e tetro odore di cui era ormai impregnata l’auto. Avevo guidato molto e arrivato in città consideravo archiviata anche questa avventura, quando a pochi metri dalla meta ci fermò la polizia. L’imbarazzo era mediato dal senso di estraniamento e dissociazione che quell’esperienza mi aveva già regalato; il signore degli avanzi era seduto di dietro. Il poliziotto si rivolgeva a me e trapelava tutta la sua misera scaramanzia nel trattarmi come se fossi pazzo o ignorante delle regole del saper vivere e del benessere:
“Non si può portare un morto in giro così! – inveiva – In quarantanni di servizio non mi era mai capitato … matto … incosciente… e ora chi l’apre per controllare … cavolo … cavoli … (altri tipi di verdure!)…”
“Non c’è il morto lì dentro.” Dissi.
“E dov’è?”
“Sono qui.” Rispose il mio passeggero.

mercoledì 3 marzo 2010

lo sceneggiatore

2004
PP. Sono allo specchio. Ho gli occhi gonfi della notte che ho passato. Mi lavo i denti (interno – bagno). Mi prenderei a schiaffi. Ho bevuto anche ieri, ho fumato, ho fatto tardi e ancora più tardi mi sono messo a scrivere in preda agli spasmi della baldoria da sbollire.
Esco.

Scena 02. Esterno – giorno. Vado al bar per la colazione.
”Caffè freddo con una punta di latte e tramezzino prosciutto e mozzarella… appena caldo.”
Cosa penserà di me il barista? Mi guarda lontano. Certo, se ce l’avessi anch’io un bancone con cui difendermi. La pedana per camminare più in alto!...
Invece no. Sono lo sceneggiatore e non ho difese, se mai le creo agli altri: il barista il bancone, l’impiegato allo sportello, il minatore il piccone… ma mi vendico state certi. Il prossimo film ci ammazzo una ventina di baristi, una decina d’impiegati li faccio cornuti e i minatori mi rimangono sotto il crollo della miniera.

Dico sempre così poi non lo faccio mai. Ho pietà, sono sensibile e nelle storie, anche quando vanno male, cerco un po’ di pace da regalare a tutti. A tutti i personaggi. Io sono uno di quelli che cerca di capire anche il punto di vista dell’assassino.

S’avvicina una donna. Fa colazione. Per un attimo ho pensato che venisse verso di me.
“Lei è S?”
”Si sono io” rispondo annoiato.
”Mi hanno parlato molto di lei, alcune mie amiche.. sa per quelle sue qualità… sono disposta a pagare…”
Si. L’ho immaginata così…

Consuma il suo cappuccino, neanche m’ha guardato. E come potrebbe? Io sono lo sceneggiatore. Quello che proprio non appare. Io scrivo: questo fa quello, quello uccide quell’altro. Do loro vita, li faccio muovere, vivere, morire, amare. Come potrebbero accorgersi di me?

Soggettiva mia. Un altro specchio, quello del bar, dietro il barista, dietro il bancone. Ci sono io. No un momento, non è vero! Non ci sono. Cacchio dovrei cambiare mestiere! O forse mi piace non essere e non apparire? Forse amo quel senso di fangosa frustrazione che mi prende quando il regista dice: ma chi l’ha scritta sta scena? E’ orribile! Quando il produttore mellifluo s’avvicina, mi gira un braccio sulle spalle e dice: sarebbe il caso (sublime cortesia del produttore) di tagliare quel riferimento al politico corrotto, al prete laido, all’industria inquinante. Si lo farò. No non rispondo così. Non potrei, devo dire: subito! Non avrebbe senso dire: si, lo farò, quando questo insinuerebbe una possibilità di scelta che non ho…
Basta! Di che mi lamento? Oggi potrebbe essere un gran giorno. Ho appena finito di scrivere una storia sensazionale e sono certo che il produttore la vorrà.

EST. GIORNO-STRADA. Tornano i rumori della strada, siamo fuori dalla mia testa e fuori dal bar.

martedì 2 marzo 2010

ermanno

2002
Un altro giorno. Tornavo a casa dopo l’ennesima giornata trascorsa ai giardinetti a cercare ispirazione spiando la gente. Ogni scrittore dovrebbe capire quando la parabola delle sue idee è caduta più in basso di quanto Cartesio avesse previsto sui suoi assi. La vita ti abitua, però e il pubblico, se scrivi una cosa buona e le successive non offendono nessuno, ti permette di mangiare e si congratula pure con te. I miei “Parapaponziligpomena” furono un gran successo tutto il resto ha arricchito senza sforzo me, l’editore, i librai e i giornalai e ha dato lavoro ai netturbini: mondezza. Ora ho la barba, le ciglia folte, la voce bassa e quando morirò il mio nome sarà sull’enciclopedia. Sono proprio un autorevole autore. Pensare che la barba non mi è mai piaciuta. L’ho fatta crescere perché non mi va di farmela. Se qualcuno vede un ragazzetto con la barba gli dice subito che è un drogato o il figlio di nessuno. A me dicono che sono un genio. Io severo lascio adito a credere che sia così, che anche quando mi riveriscono sono preso da chissà quale astrazione. In testa mi piscio sotto dalle risate. A casa poi, nell’intimità, faccio ancora delle cose cretinissime. Dico ancora non perché la mia firma pesa come un macigno, ma perché ho una certa età e forse dovrei smetterla di fare gli scherzi telefonici. L’altra sera ero ad un convegno con dibattito sull’alterità, "il Sè come un altro": due palle micidiali. Ad un certo punto dovetti intervenire come da programma per dare il mio ricco ed elitario parere. Una fatica a costruire dotte parole sull’aria fritta che non vi dico e allora citai il dimenticato poeta latino “Tito Albucio”, ma approfittando delle mie origini sabine, tendevo a pronunciare una D al posto della prima T del suo nome. Uno spasso. Nessuno si è permesso una risata. Nessuno. Tranne un ragazzino figlio di chissà chi, subito rabbuiato da qualche “sine bibaculo” (imbecille). Dico rabbuiato perché sulla bilancia che da equilibrio alla scelta tra praticità ed estetica delle mie parole è la migliore soluzione da contrapporre alla luce dipinta sul suo volto capace di sorridere e di indovinare il senso della vita. Senso che ho perso e perderà anche lui in onore della maturità. Ho una voglia di morire irrefrenabile. No, mica per una qualche depressione, per quel fatto dell’enciclopedia. Mi rode perché se muoio non lo leggerò io il mio nome e non ho figli a cui lasciare l’eredità di ridere di me, della descrizione della mia intensa attività. Per questo voglio ritrovare quel ragazzino.

Nel mio studio di notte. Le tapparelle sono abbassate, qualcuna sbilenca, sono anni oramai che nessuno le tira più su. Forse mi vergogno delle mie produzioni e non voglio correre il rischio che qualcuno mi guardi. Le librerie coprono le pareti. Tappeti, polvere e i fogli sparsi ovunque, qualcuno con qualcosa di importante, ma chi li ha più guardati? La luce di lampadina opaca penzola sui miei pensieri al passaggio di ogni autobus. Fuori un mondo di illusioni si muove frenetico e inutile. Dentro il mappamondo di speranze col supporto di legno e le sue tre gambe che ho dimenticato di far correre. Lo faccio roteare sul suo perno con una decisa manata. Non pensavo di avere tanta forza. Innaturale. Aumenta di velocità ad ogni giro. I fogli cominciano a vibrare e poi a galleggiare in aria. I libri si consultano da soli come un vocabolario, alla ricerca forse di una conoscenza di quel fenomeno. Io stesso vacillo, mi esibisco in una veronica, perdo l’equilibrio e poi il contatto col suolo e mi accorgo di essere nella tromba d’aria di quell’episodio di “Fantasia” di Walt Disney. “La Notte sul monte Calvo” (a night on the bare mountain) con Mussorgsky che me la suona nei timpani diabolicamente ubriaco. Il vortice si gonfia, si innalza, danza, caracolla e salta fino a puntarsi sul quarantacinquesimo parallelo del mappamondo. Si ferma proprio su Roma e io lì cado perdendo i sensi.
Con gli occhi ancora chiusi il mio corpo cerca la familiarità dello spazio. Non la trova. Né cuscino, né coperta, né distanza gomito-muro. Apro gli occhi e vedo la natura attraverso una bottiglia di cognac. Pian piano il cognac si dissolve e pure la bottiglia, dentro la bocca oceani di guano cullano la carogna di un ippopotamo. Sono in un parco. Parco parco, infatti è quello sotto Castel Sant’Angelo e il febbricitante flusso di questa storia mi porta sotto gli occhi l’agognato ragazzino. Ce ne sono parecchi per la verità e giocano al pallone.
“Ermanno!” Chiama uno.
E lui: “Tiè!” E non gliela passa, ma finta, dribbla e segna.
“Goooo!” Faccio io e mi produco in una danza.
“Ma chi è? Che vò?”
“Bo!”
...
Al termine della partita mi congratulo con la squadra di Ermanno tra le facce interrogative degli atleti.
“Ma chi sei un petofilo?” Mi fa un bambinetto.
“Ma io ti conosco” l’attento Ermanno “tu sei quello dei diti nel bucio. Come ti chiami?”
“Io mi chiamo…” E come mi chiamo… “…Socrate.” Presuntuoso. “Mi chiamo Socrate. E la storia dei diti è meglio che rimanga fra noi.”
Ritorno a casa. È sera. Sono soddisfatto. Nello studio un caos demoralizzante. Il vuoto acustico amplifica il sonoro dei ricordi. Sprofondo nella poltrona di pelle e ascolto ancora una volta le voci dei bambini e i tonfi della palla.

mercoledì 24 febbraio 2010

i balli di sopra.

2004
Alfredo andava a letto tardi. Non per lavoro né per divertimento, semplicemente perché la sua vita non aveva molto da raccontare e lui tirava i giorni per le lunghe nell’ansia di sfruttare quei momenti brevissimi e di nessuna importanza che si mescolano nel tempo, ma che hanno un leggero sapore in più.
Tornava a casa per lo più ubriaco o di alcool o di vuoto. Girava la chiave e già s’accorgeva che il giorno era prossimo a rientrare in possesso dei suoi rumori e della sua vivace vacuità. Entrava in casa con la testa un po’ china, si sfilava i calzoni e la camicia e si buttava sul letto ogni volta come potesse essere l’ultima volta, ingannandosi di poter cambiare vita l’indomani. Gli uccellini pigolavano sugli alberi di fronte le sue finestre, le serrande disegnavano strisce di penombra sui suoi oggetti e su lui stesso. La solita motoretta ritardataria spernacchiava fuggendo l’oscurità. A questo punto ogni notte nel dormiveglia, nella ubriacatura, nel respiro pesante e affannato Alfredo sentiva in lontananza un suono ritmico attutito nell’ovatta delle sue orecchie di nottambulo pentito.
Tum-Tum, Ta-Tum… Non c’erano mai forze per andarsi a sincerare di dove provenisse. Forse c’era anche una melodia, ma molto leggera e comunque non ne aveva certezza. Era come se mille piccole scope battessero su un panno adagiato sul pavimento del piano di sopra. La cosa sconcertante di questa sua audizione era poi la marzialità, la compostezza di questa infinità di percussioni gentili. Ma a questo punto l’ipnosi del ritmo l’aveva già conquistato e lui cominciava a vedere quelle architetture improbabili, quei luoghi componibili dal ricordo alla fantasia che il sogno prospetta al sognatore che ora dorme.
La sveglia lo riportava al giorno senza che vi fosse troppa voglia di assaggiarlo simile com’era a tutti gli altri, meglio continuare a masticare la saliva della sera prima ancora un po’, abbracciando il cuscino e pentendosi delle mille sigarette e del bicchiere di troppo. Meglio riafferrare quella fanciulla con cui aveva chiacchierato e che ora s’era portato su una spiaggia dove faceva i castelli di sabbia da bambino, col sogno che agitava le onde facendo crescere il mare. Non era più lei però, ora che aveva richiuso gli occhi, ma era una grassona che gli amici gli volevano affibbiare ad ogni costo e sua madre gli intimava nelle orecchie di sposarsi…
Meglio alzarsi. Grattandosi un po’ il sedere Alfredo scendeva i piedi dal letto in mutande e sudato per riconquistarsi cinque minuti dopo con uno schiaffo d’acqua gelata sul volto. Scrutando i suoi stessi occhi allo specchio cominciava a navigarli nelle striature multicolore indagando perché l’uomo deve vivere?
Un momento dopo ripescava in quegli occhi così suoi e tanto estranei il ricordo del rumore notturno diventato col tempo troppo abituale per non dedicargli delle attenzioni.
Troppo mattina e troppo mattina presto per fare congetture, però quel giorno il pensiero del tam-tam gentile e notturno sarebbe ritornato molte volte.
Passò la giornata rubacchiando vita nelle persone estranee, tentando dialoghi, eccedendo nelle cortesie, spiando le gambe delle ragazzette e le pance dei commendatori, le mani delle cameriere e le scollature delle cassiere, le sbucciature dei ragazzini col pallone e gli anelli delle donne, la fretta degli impiegati e le telefonate dei professionisti…
No! Non voleva assomigliare a nessuno, ma era così difficile: impossibile. Gli altri come lo percepivano? Quelli sugli autobus che lo guardavano seduti in alto e severi non s’illuminavano certo notando com’era diverso e inusuale, anzi guardavano per guardare non dedicando un pensiero alle immagini che sarebbero state loro, della loro vita e forse quindi importanti. Le cameriere erano pagate per dargli un certo numero di sguardi e non ne sprecavano uno in più che non fosse tra quelli per la loro breve compagnia di un’ordinazione. Gli impiegati non lo guardavano proprio per nulla. I professionisti rispecchiavano la loro gioia di non essere diversi da loro stessi in quel curioso passante che era Alfredo e che rappresentava l’inutile altro.
Seduto in un bar Alfredo giocava con il bordo di un bicchiere. Fisso su un pensiero che aveva frantumato l’utensile e spaccato il tavolo per aprire una voragine sul pavimento fino a scoprire il cuore infuocato della terra. Il tam-tam. Le scope sullo straccio! La melodia, se c’era…
“Dobbiamo chiudere, signore.”
La cameriera lo invitava ad abbandonare i pensieri e il bar, con il conto che non s’accorgeva dei danni e della voragine causata da Alfredo. Ma quanto tempo era stato lì? Fuori era notte fonda. Bastava aspettare un po’ magari passeggiando per strada e attendere l’ora per scoprire l’arcano.
Le stelle schiarivano il blu. Gli alberi erano diventati di un celeste sporco. La vita riposava i suoi colori nella notte. Alcune prostitute straniere spazzavano con una scopa il pezzo di marciapiede di loro competenza. Alfredo rise e pensò che era valsa la pena di vivere per vedere questo gioco di pensieri…
Tornò a casa. Si mise in mutande e aspettò ancora. Nell’attesa si sdraiò e quasi il sonno se lo portava via, quando il suono misterioso cominciò a battere. Era il momento. Si concentrò allo spasmo e girò per la casa alla ricerca della provenienza. Ma il suono era costante e distante nella stessa maniera ovunque si spostasse. Il tempo di fuggire l’idea della pazzia e prese una decisione grave rimuginando le sue deduzioni. Andare al piano di sopra! In mutande e ciabatte aprì furtivo la porta di casa e per la seconda volta nella serata rise di se stesso e dei suoi giri di pensieri. Salì le tre rampe nella tromba delle scale che lo dividevano dal piano superiore. Quel tam-tam sembrava leggermente più chiaro.
Avrebbe voluto avere più tempo per ragionare il da farsi, ma l’alba spietata non glielo avrebbe dato. Si fece il segno della croce (chissà perché?) suonò il campanello.
Per un istante il suono si fermò, frazione di secondo in cui Alfredo sfogliò con la testa le fotografie dei suoi possibili eredi, ma il suono riprese e la porta s’aprì.
In realtà entrò quasi subito, ma poiché la porta s’era aperta e non ne era uscito nessuno a incazzarsi per l’ora davvero crudele in cui lui era venuto a suonare, a lui sembrò di essere rimasto immobile per un’eternità sulle gambe che s’erano fatte di cemento.
Dentro una penombra diffusa confondeva le ombre di un enorme salone. Il suono era leggermente più chiaro, ma non si poteva dire di essere nell’origine di un suono che al piano di sotto era sembrato più lontano e quindi più forte. Alfredo si chiuse la porta alle spalle automaticamente e si girò verso le ombre. Erano ombre di uomini (e di donne perché no? Ma tutte uguali!) che facevano un unico movimento ritmato. Non riusciva a quantificarle. Tante. Stavano su un piede solo, il destro ad esempio, l’altro appeso in aria, con il braccio sinistro in alto e il destro in basso. Un secondo dopo cambiavano simmetricamente posizione: piede sinistro a terra e braccio destro in alto…
Questo facevano instancabilmente, di continuo, all’unisono tutte quelle ombre.
Alfredo le fissò per qualche attimo assolutamente ipnotizzato. Gli sembrò come se un’altra coscienza aleggiante, forse dietro le sue scapole (!), apprezzasse, anzi trovasse meraviglioso quel movimento.
Si guardò le mani: ombre. Si guardò le gambe: ombre. Un momento dopo era con tutti gli altri a mimare anche lui quel movimento ridicolo e tribale e non faceva alcuna difficoltà ad andare a tempo. Un momento ancora e noi ci accorgiamo che non esiste nessun Alfredo, ma solo ombre danzanti appartenenti ad una sola coscienza.
La mattina si alzò di scatto. Andò al solito specchio e navigò negli occhi. Era felice. Felice di non essere più nessuno.

lunedì 22 febbraio 2010

sognare di essere un calciatore!











(sogno di qualche anno fa)
Suonano alla porta.
“Presto,  è necessaria la sua partecipazione all’operazione.” Degli uomini in tuta mi spingono fuori.
“Che succede? Che volete?”
...
Sono su un campo di calcio, quello del circolo dei Vigili Urbani vicino al campo nomadi alla Magliana. Un arbitro vestito con la vecchia casacca nera, la coda, le corna e le orecchie a punta fischia il calcio d’inizio. Improvvisamente si materializzano delle tribune e il campo di periferia diventa una bolgia infernale. Tifosi, fumogeni sulfurei e veri e propri fuochi sugli spalti si uniscono in un turbine caotico ai flash e alle telecamere. Sudo e ho difficoltà a partecipare alla manovra della mia squadra. Il cielo è nero e le nuvole si addensano minacciose. L’aria fredda e secca, si fa fatica a respirare.
Pelè mi passa la palla vicino alla linea del fallo laterale. Un losco figuro con la testa di cinghiale mi viene incontro. Lo supero con una finta, ma il guardalinee mi sgambetta con la bandierina. Cado, ma l’arbitro non fischia; si avvicina il cinghiale:
“Non provarci mai più o ti stendo.”
Sono tutti contro di noi in campo e nelle tribune, tranne un folto gruppetto della comunità Rom che ci sostiene ballando e cantando. Dal mio auricolare intanto mi tengono aggiornato sulle mie quotazioni:
“Se tocchi il pallone due volte in una stessa azione, cinquanta miliardi; se segni, cento miliardi; se sputi inquadrato dalle telecamere, centocinquanta miliardi; ma non starnutire o perdi sessanta miliardi.” Mi viene da starnutire!
Soffriamo il gioco avversario sporco, ma concreto anche perché uno dei nostri appoggiato ad un palo conta dei biglietti da cento.
Viene il momento. Il Papa prende palla a metà campo e dribbla due vallette di Mediaset in una pioggia di fischi assordanti. S’invola sulla fascia e crossa al centro dell’area di rigore dove ci sono io e un nugolo di avversari.
Trattengo respiro e starnuti e salto. Nessuna droga del mondo può farti provare una più intensa astrazione del corpo e della mente come una rovesciata... Goal!
Il guardalinee con una maglia a righe bianconera alza un’improbabile bandierina, l’arbitro cornuto porta il fischietto alla bocca quando mio nonno, stanco dell’inesorabilità dell’errore arbitrale, spara un colpo di pistola e lo uccide e grida: “Vediamo se sbagliate ancora!” Approfitto del frastuono per starnutire e dall’auricolare mi dicono che sono licenziato.
Gli uomini in tuta mi portano via...

sabato 20 febbraio 2010

vinicio vessato

2002
“Buongiorno signor Faciero.”
“Buongiorno e buona passeggiata.”
Vinicio si era alzato presto. Lo zaino con i libri dell’università era pronto dalla sera prima. Prima di uscire si era sincerato di avere tutto: documenti, chiavi, sigarette, soldi, cellulare e tesserino. La madre lo aveva illuso chiedendogli se voleva il caffè. Aveva risposto di sì e poi aveva dovuto constatare che era del giorno prima riscaldato al microonde. Che porcheria! Del resto era meglio berlo, dicono che svegli. La mattina soffriva di bassa pressione, conveniva che mangiasse qualcosa, ma la sua pancia era pronunciata e allora spesso decideva di tenersi il suo pallore, la vista abbassata e la debolezza. La notte dormiva male. Si alzava e si rigirava nella camera senza accendere la luce tanto la settimana enigmistica era già passata per le mani del padre, della madre, delle sorelle e della nonna: finita. Aveva un libro sul comodino acconcio a queste situazioni, solo che leggere assonnati e stanchi è inutile. Non ricordava mai cosa aveva letto e ricominciava da capo ogni notte. Il sonno gli era difficile a causa di alcuni problemi respiratori congeniti che nelle notti migliori lo facevano tossire e starnutire. Cercava di farlo in silenzio perché spesso in quella casa si erano lamentati dei rumori notturni che produceva. Certe volte si destava quando era quasi giorno. La sua finestra dava su un bel cortile alberato. Gli uccellini pigolavano e cinguettavano come in uno zoo, anzi qualche volta avrebbe potuto giurare di aver sentito delle scimmie impedirgli di riprendere sonno. Altre volte non tentava proprio, rimaneva sveglio, sdraiato e pensava. Pensava… Pensava alle sue evasioni. Un inguaribile ottimismo o forse un senso di rinuncia, gli lasciavano percorrere l’esistenza.

Salì sul motorino che non si accendeva mai al primo tentativo e ripensava al senso delle parole del suo vicino. Il signor Faciero usciva sempre presto la mattina. Accendeva la macchina e la lasciava sgasare per una decina di minuti nel garage. Si accertava però prima che la porta che dava sulle scale del palazzo fosse aperta. Si poteva così apprezzare l’infiammabilità del diesel e le sue esalazioni già aprendo la porta di casa al quarto piano. Con un bel respirone appena alzati già era chiaro l’andamento della giornata. Ma non contento l’inquinatore precedeva tutti nel prendere l’ascensore e qui fumava una pregiata sigaretta dei monopoli di stato scendendo negli inferi sulfurei e asfissianti del benzene.

Buona passeggiata non era così il modo migliore di salutare uno che avrebbe dovuto affrontare il traffico invalicabile e perpetuo di una città viziata da sensi unici che lo avrebbero portato, avvolto nello smog, lontano dalla meta. Allora con coraggio avrebbe dovuto trovare la strada con buche, lavori in corso, tamponamenti e passaggi sui marciapiedi per conquistare l’Università. Lì oltretutto le cose non gli andavano molto bene. Aveva decisamente preso un corso che non gli era congeniale, la vita è un intrico di errori! Nasciamo tutti perfetti e fino alla fine intacchiamo la tabula rasa credendo di limitare i danni, ma peggiorando inevitabilmente. Non certo la scuola, che dovrebbe avere il coraggio di abbandonare questo indegno nome, poteva aiutarlo nella scelta della facoltà, ma soprattutto il rispetto dei genitori pesò nell’indirizzarlo su quello che loro ritenevano giusto. Inutile dire che quando si accorsero che le cose andavano male lo accusarono di avere poco carattere. Ovviamente divenne il campione preferito delle statistiche dei benpensanti. L’adorabile parcheggiato, numero un milionemille e tanti che vive ancora con la mamma, capro espiatorio delle lamentele dei docenti, dei genitori, dei raccomandati, dei giornalisti socialmente impegnati, dei politici …

Al quarto tentativo il motorino partì. Si aprirono, però subito due occhietti uno giallo e uno rosso a salutarlo: benzina e olio erano finiti. Salì la rampa del garage con un leggero senso di sconforto, fece trecento metri poi il mezzo si fermò. Il primo benzinaio non era proprio vicino e spingere in quel luglio da trentadue all’ombra non era piacevole. Dopo aver rischiato di essere investito e un paio di pause a riprendere fiato, si trovò a constatare che la benzina aveva avuto un nuovo aumento. Frugò nelle tasche: tremila lire. Solidali con gli automobilisti i benzinai deprecavano quell’inarrestabile crescita di prezzo della loro merce e quindi scioperavano irritati. Vinicio si sedette sulla sella del suo assetato cavallo e aspettò le macchine che avrebbero potuto usufruire del self-service.
“Scusi, mi da tremila delle sue dieci gliele pago?”
“No.”

La domanda la fece più volte fino all’arrivo di una tremante vecchietta che si rivelò disponibile. Intanto aveva perso la prima ora di lezione e i soldi per il cappuccino. Le porse i soldi e per ricambiare la cortesia si applicò all’erogatore. La vettura copriva la colonnina con i display così si fidò degli “ancora” dell’anziana gentile.
“Basta, grazie.”
L’auto partì e Vinicio si accorse delle rimanenti duecento lire. La vecchina in fuga si girò e accompagnò al gesto dell’ombrello un sonoro: “Drogato!”
Rimase alcuni minuti immobile con la bocca aperta e il tubo in mano. Lo ridestò la fine del tempo disponibile per erogare la benzina residua.