sabato 6 marzo 2010

il giovane e il poeta

2005
Giovanni faceva colazione. Era perfetto col cappuccino in bocca, sulla sedia di plastica, con lo zaino per terra appoggiato su una gamba. Con la maglietta di protesta, i pantaloni corti, il cuore pronto a ricevere emozioni. S’alzò, pagò, uscì. Ce n’era voluta di fatica per arrivare lì. Le telefonate, le indiscrezioni, i soldi per il viaggio, il viaggio. Prese una lunga boccata d’aria e guardò nel vuoto. Sei passi lo dividevano dall’uscio del bar al portone del “Poeta”. Il suo Poeta, quello che gli aveva regalato la comprensione che nessuno al mondo era mai stato capace di dare. Lo doveva conoscere. Gli doveva dire che la pensavano proprio nella stessa maniera, che le cose che scriveva sembravano stampate sulla sua pelle coi caratteri inchiostrati della sua anonima vita. Fece i sei passi. Era davanti al citofono. Il muro dell’edificio era vecchio e sporco come nella sua testa. Un po’ d’edera ribelle camminava su quel muro, fuggendo l’odore acre di una pisciata notturna. Qualche nome straniero, numeri d’interni e i doppi cognomi delle coppie. Un portone uguale alla sua testa, piuttosto normale. Suonò dove doveva.
“Chi è?” una voce di donna, anziana.
“Salve mi chiamo Giovanni e sono qui per il Poeta…”
“Il Poeta?”
“Non abita qui Norberto Fratta Pumpulit?” fece avendo paura che le informazioni ricevute fossero state erronee.
“Ah, il “Poeta”! Ah, ah, ah, ahhhhrffforgf arf, ah, ah…”
“Sta bene?” Giovanni non capiva se la signora rideva o stava per morire.
“Si, si… mi perdoni… il Poeta: ah, ah, ah cough, cough, arf far farargh, ah, ah…” e aprì.
L’androne buio e cupo. Sapeva d’umidità e di clandestinità. Forse le persone di quel palazzo non si conoscevano neanche. Ci vide entrare persone da sole di notte, o qualche fortuito incrocio tra condomini che non si salutano e preferirebbero non incontrarsi mai. Una bicicletta stava sbracata sotto un sottoscala con la ruota davanti che lo indicava inquisitoria e stanca. Gradini di marmo lisciati dagli anni, era un palazzotto antico, sofferente, esausto di riparare ingrati pigionanti scomodi e egoisti. I gradini gridavano: “Abbiamo visto più piedi noi che mani il piede di San Pietro! Ma non se ne accorge nessuno.” No qualcuno se ne accorse ed era Giovanni il sensibile che amava le poesie del Poeta e da questo amore confortava il dubbio su se stesso di sensibilità. Comunque li salì. Arrivò al piano leggendo i campanelli e ponderando che profilo avrebbe dovuto mantenere. In verità erano mesi che aveva deciso come comportarsi, ma ora gli sembrava cambiare tutto, perché ora era il giorno da vivere. Suonò a Castiglione-Fratta Pumpulit. Un classico Din-Don.

Aprì una vecchina con lo scialle viola sulle spalle e il sorriso sgangherato. Fu pervaso subito da un odore di mobili vecchi. Di elettricità vecchia, di biscotti fatti a casa e vecchi. Di mobili polverosi, di libri, di velluto sulle poltrone, di mobilie calde quando fa caldo e non abbastanza calde quando fa freddo.
La vecchina si limitò a fare rumore senza aggiungere parole:
“Ah, ah, ah, arfargha fargh, cough, ah, eh!”
Si avvicinò da un corridoio una donna più giovane della precedente, ma matura e un po’ scapigliata. Gonna e passi sonanti, lo guardò e indagò la vecchina:
“Il signore è un tuo amico, zia?”
“No, ah, ah, è uno che cerca il Poeta! Ah, ahnfarf, ah, ahhhhhhhrrrrgh…”
“Vorrei parlare con Norberto, signora, il Poeta …”
E allora la nuova donna:
“Il Poeta? Il Poeta! Il Prrrrrunfffff, ah, ah, AH, AH, ah, ah, mi scusi…il Poetarfhagarg, ah, ah… un momento, ih, ih. Adelinaaaaa!” Chiamò nell’aria vecchia di quella casa dove evidentemente si rideva di nulla!

Seguì la donna per il corridoio con le stampe di Roma antica alle pareti, le consolle strette e alte stile falso impero, dove s’affacciavano porte a vetri opachi e misteriosi, sul pavimento di grani di marmo peperino. Entrarono nell’ultima porta a sinistra, l’unica aperta e dentro c’era Adelina che stirava.
“Il signore vuole conferire, ah, ah, col Poet…. Argh, ah, ahhahhà hà, ha…!”
Adelina lo squadrò coi capelli impennati dalle forcine. Esitò un momento e poi, inevitabilmente:
“Il…il…il…PooooOOOOOooooOOOh, oh, oh, uah, haffa fa, ah…” Dopo due minuti in cui le donne si sganasciavano piegandosi sul ventre e tenendoselo stretto tra le mani, Adelina si ricompose un poco, tradendo l’accaduto col rosso delle guance e con gli spigoli della bocca.
“Faccio strada, prego, ih, ih, ih….”
Giovanni uscì nuovamente nel corridoio e osservò la vecchina dall’altra parte che ancora rideva e sbatteva i pugni su un tavolo dell’ingresso. Credette di aver sbagliato qualcosa, ma oramai era lì e doveva continuare. Seguì la domestica per una specie di tinello, presero per una porta e poi su un ballatoio. I panni appesi si riversavano in un cortile interno soffocando tre palme nane. Bussarono ad una nuova porta.
“Signor Poetaaaaaa! Ah, ah….” Adelina non trattenne un accento marcatamente romano poi aprì e disse: “C’è questo giovane per voi…. Poeta, ah, ah, ah, argh, arf (etc.)…”
Giovanni entrò.

A questo punto fra il culmine delle emozioni ammucchiate nei mesi scorsi, la stanchezza e l’incognito del viaggio e questa accoglienza bislacca uscì il più timido dei suoni dalla bocca di Giovanni: “Salve, Maestro!”
Quello si girò distraendosi un attimo dai suoi affari e guardò l’ospite di traverso tra l’infastidito e il meravigliato.
“MAESTRO! Dici a me… maestro… AAAAAAHHHHHHH, AHHAHA, AH, ahhhhh, ahhhrrrrr, ah, ah, ah…..” Giovanni lo riconobbe non si era sbagliato! Rimase impietrito nel non capire tanta ironia; ebbe voglia di fuggire, ma non lo fece. L’altro, nelle convulsioni del riso, si rovesciò una tazzina di caffè addosso disgraziatamente appoggiata sui cuscini del sofà. La sua squadra di calcio alla playstation subì un goal. Fu questo un motivo per tornare alla realtà.
“Cazzommerda!” Cantò il poeta.
“Prego?” Chiese Giovanni.
“Ho perso!” Sentenziò il maestro. “Una partita?” Chiese.
“Io veramente non c’ho mai giocato, io non ho mai… io… il mio interesse è la lettura… io sono venuto qui per…. per conoscerla… per ringraziarla delle sue parole… io… Amo la poesia: la sua poesia!”
“La mia po… la mia po…po….po…po…poerfargh, arf, ahhhhhhhhhhhhhh, auhhhhhhhhhh, uuuuuuuuuuhhhhhhhhh…”
Giovanni avrebbe voluto morire lì, in quell’istante. Ma il caso è avverso e così non volle. Invitato a farlo si sedette su una sedia di legno da osteria e si lasciò bersagliare dai dardi dello sconforto. Poi riprese le forze e il coraggio e protestò: “Fate ridere anche me?”
S’affacciarono le tre donne sulla soglia della porta mentre il Poeta, inciampando fra le risate, s’arrampicò su una libreria e ne estrasse un libro. Il suo libro di poesie, quello che aveva regalato speranze a Giovanni. Glielo porse e rispose: “Sì! Leggi questo! AHHHHHHHH, argh, sarf. Sfruuuuuuuaaaaahhhhhh. Ah, ah… (Etc.)” e a questo suono di pancia che non trattiene l’ilarità s’unirono le donne e il coro suonò il gospel più divertito del mondo.

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