giovedì 18 marzo 2010

il perimetro della coscienza

2002
Un appuntamento insolito se si vuole, ma oramai non era certo più il luogo, in senso esteso, che mi poteva scuotere da quella disposizione d'animo perennemente in bilico tra il disprezzo di me stesso e il disgusto per gli altri.
Comunque attendevo in piedi, la testa rivolta a terra, in quel campo da pelota basca che sarebbe stato pronto già da dieci anni, ma che non aveva mai più avuto i permessi di non so quale ente del cacchio.
Non c'era luce, quindi, se non quella che filtrava dai vetri infranti della struttura, ma anche questo non poteva aumentare un disagio che nasceva dal mio stomaco più che venire da stimoli esterni. Non ero armato. Non potevo: non avevo un soldo e nessuno era più disposto a darmi fiducia, ma non pensavo che avrei rischiato più di tanto e pure fosse stato, prima o poi capita a tutti.
Avrei dovuto concentrarmi, essere pronto, radunare le forze per non farmi sorprendere e per concedermi la maggiore lucidità possibile, invece...
Su quella mescola di asfalto sintetico, tra il brecciolino dell'usura di nessuno e qualche cartaccia portata dal vento o qualche fumatore di spinelli, riapparve un'altra volta quel corpo magro e agile.
La figura filiforme di una dea dei miei stivali che mi confortava l'anima durante il suo pensiero e mi avvelenava i pensieri quando tornavo a riconsiderare il tempo e lo spazio.
Camminava dritta nel salone dei desideri di quell'artificioso e costruito mondo che scavalcava l'oceano da un punto incerto dell'infinito, trafiggendomi la fronte fino alle rocce più spigolose di questa mia brutta e corrotta capoccia. C'era un rettangolo che avviliva le geometrie provate del globo terrestre, nelle quali nessun bastardo pappone succhia realtà m'avrebbe più convinto a credere.
E c'era sto salone col soffitto basso, con la luce rossa, coi passi di quei sandali da schiava che s'arrampicavano sulle sue gambe e non saprò mai se soffrivano più i polpacci, i lacci o io che l'invidiavo a stringere così bene due oggetti così belli e così importanti.
Se poi l'impotenza dei miei movimenti fosse dipesa dal fatto che potevo essere legato ad una sedia, o a quell'oblio chiamato dagli psicologi terrore notturno o presso di noi miseri di tutto: indaco, questo non lo so.
Sta di fatto che mi contorco ancora se sposto una frequenza e una velocità in testa, nel vederla passare davanti ai miei ricordi e penso che sono spasmi ciò che chiamo: "perchè non credo in me!".
Comunque non nego che anche in quel momento, mentre la luna si prendeva gioco della mia ombra e faceva credere ch'io fossi un giocatore di quello sport con le ceste, mi facevo schifo da solo, da qualche altra parte nei liquami più acidi dell'anima.
Camminava e ondeggiava i fianchi, brevemente, quello che a me basta, che di più sarebbe troppo, per farmi strisciare di voglia di stringerli. Una vita perfetta (bel doppiosenso!), la sua: snella e disegnata dall'equilibrio dei desideri di ogni uomo.
Ci passasse allora sopra di me tutte le volte che crede, almeno questo vorrebbe il mio egoismo. Venisse a calpestare st'inutilità come si da un calcio a una lattina per strada, senza necessità, senza voglia, senza ricordo…
....arrivò l'uomo, quell'avvocato coi suoi scagnozzi. Il prezzo lo fece lui, per me era uguale non li avevo. mi chiese adirato allora perchè l'avevo voluto incontrare. Risposi che era per amore che la volevo comprare.

(nella foto Silvia Salvatori)

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