martedì 30 marzo 2010

LXVI

Qui conta d'uno filosofo, lo quale era chiamato Diogene.

Fue uno filosofo molto savio, lo quale avea nome Diogene. Questo filosofo era un giorno bagnato in una troscia d'acqua, e stavasi in una grotta, al sole. Alessandro di Macedonia passava, con grande cavalleria. Vide questo filosofo, parlò e disse: "Deh, uomo di misera vita, chiedimi e darotti ciò che tu vorrai." E'l filosofo rispose: "Pregoti, che mi ti levi dal sole."


(anonimo)

giovedì 18 marzo 2010

il perimetro della coscienza

2002
Un appuntamento insolito se si vuole, ma oramai non era certo più il luogo, in senso esteso, che mi poteva scuotere da quella disposizione d'animo perennemente in bilico tra il disprezzo di me stesso e il disgusto per gli altri.
Comunque attendevo in piedi, la testa rivolta a terra, in quel campo da pelota basca che sarebbe stato pronto già da dieci anni, ma che non aveva mai più avuto i permessi di non so quale ente del cacchio.
Non c'era luce, quindi, se non quella che filtrava dai vetri infranti della struttura, ma anche questo non poteva aumentare un disagio che nasceva dal mio stomaco più che venire da stimoli esterni. Non ero armato. Non potevo: non avevo un soldo e nessuno era più disposto a darmi fiducia, ma non pensavo che avrei rischiato più di tanto e pure fosse stato, prima o poi capita a tutti.
Avrei dovuto concentrarmi, essere pronto, radunare le forze per non farmi sorprendere e per concedermi la maggiore lucidità possibile, invece...
Su quella mescola di asfalto sintetico, tra il brecciolino dell'usura di nessuno e qualche cartaccia portata dal vento o qualche fumatore di spinelli, riapparve un'altra volta quel corpo magro e agile.
La figura filiforme di una dea dei miei stivali che mi confortava l'anima durante il suo pensiero e mi avvelenava i pensieri quando tornavo a riconsiderare il tempo e lo spazio.
Camminava dritta nel salone dei desideri di quell'artificioso e costruito mondo che scavalcava l'oceano da un punto incerto dell'infinito, trafiggendomi la fronte fino alle rocce più spigolose di questa mia brutta e corrotta capoccia. C'era un rettangolo che avviliva le geometrie provate del globo terrestre, nelle quali nessun bastardo pappone succhia realtà m'avrebbe più convinto a credere.
E c'era sto salone col soffitto basso, con la luce rossa, coi passi di quei sandali da schiava che s'arrampicavano sulle sue gambe e non saprò mai se soffrivano più i polpacci, i lacci o io che l'invidiavo a stringere così bene due oggetti così belli e così importanti.
Se poi l'impotenza dei miei movimenti fosse dipesa dal fatto che potevo essere legato ad una sedia, o a quell'oblio chiamato dagli psicologi terrore notturno o presso di noi miseri di tutto: indaco, questo non lo so.
Sta di fatto che mi contorco ancora se sposto una frequenza e una velocità in testa, nel vederla passare davanti ai miei ricordi e penso che sono spasmi ciò che chiamo: "perchè non credo in me!".
Comunque non nego che anche in quel momento, mentre la luna si prendeva gioco della mia ombra e faceva credere ch'io fossi un giocatore di quello sport con le ceste, mi facevo schifo da solo, da qualche altra parte nei liquami più acidi dell'anima.
Camminava e ondeggiava i fianchi, brevemente, quello che a me basta, che di più sarebbe troppo, per farmi strisciare di voglia di stringerli. Una vita perfetta (bel doppiosenso!), la sua: snella e disegnata dall'equilibrio dei desideri di ogni uomo.
Ci passasse allora sopra di me tutte le volte che crede, almeno questo vorrebbe il mio egoismo. Venisse a calpestare st'inutilità come si da un calcio a una lattina per strada, senza necessità, senza voglia, senza ricordo…
....arrivò l'uomo, quell'avvocato coi suoi scagnozzi. Il prezzo lo fece lui, per me era uguale non li avevo. mi chiese adirato allora perchè l'avevo voluto incontrare. Risposi che era per amore che la volevo comprare.

(nella foto Silvia Salvatori)

istinto

041120070400G
Come milioni di veli di seta
scendono i capelli sulle spalle
Lungo i fianchi.
Due perle proteggono,
che abbagliano lo sguardo.
Io non riesco ad alzare la testa
io non riesco a soffrire i miei pensieri
a sostenere l’animo.
E non guardo,
ma vedo tutto.
Un istinto insospettato s’accorge
di tutto.
Della danza dei veli.
Della danza degli occhi
e i giochi diventano sentimenti e
emozioni.
Capisco come è solida la bellezza in alcuni casi.
Non è effimera e mi vergogno
di averla sempre giudicata così.
Il nascondino dell’attrazione.
Il selvaggio che c’è
nel corteggiamento.
Io sono un animale.

(disegno di A. Ferraro)

mercoledì 17 marzo 2010

miricae_11

a volte è la penna che sceglie. sono le parole migliori.

domenica 14 marzo 2010

miricae_10

uccidere scherzandoci sopra.

scena: l'ascensore

Un uomo guarda nello specchio di un ascensore. c'è lui in primissimo piano e una donna alle sue spalle.
Buio.
Lo stesso uomo è salito di un piano, dietro di lui, identica posizione, c'è un'altra donna.
Si ripete per più piani.
L'ascensore si ferma, lui esce. Apre la porta del suo appartamento, molto disordinato e sciatto.
L'uomo è solo.

lunedì 8 marzo 2010

l'epopea di Jubel e la musica

2004
Dev’essere stato quando gli angeli si baciavano tra loro, sulle volte, tra le nuvole o poco dopo, quando suo padre, invidioso, uccise il fratello. Mentre Astaroth cambiava sesso e nome sotto le colonne d’Ercole… Mentre Mani diceva o così o non se ne fa niente. Comunque quando fu, Jubel si mise questi fogli in tasca sicuro che un giorno io avrei capito l’antifona.

Quello che so è che a un certo punto prese una nave mercantile che dall’Africa portava carichi di banane. La prese nel senso che ne fu il capitano. Poi un giorno disse al suo già esiguo equipaggio di non imbarcarsi, che questo viaggio l’avrebbe fatto da solo. Unico a protestare fu Tomasso, gli altri credettero giusto fidarsi.
Comunque partì, solo e con un milione di banane. La chiatta salpò per il nord, il resto lo dobbiamo immaginare.

Ne riebbi notizie dall’India che stava a Calcutta. Con un aria severa e più magro del solito, faceva il medico, ma con sempre negli occhi quella cosa lontana e misteriosa da fare. Jubel guardava negli animi di quei bambini che non sapevano il male che avevano. Che gli arrivavano lì davanti spinti dai genitori o dalla curiosità. Ebbe per loro più parole che rimedi.
Una sera all’ultimo della fila confidò che doveva proprio andare. Il bambino lo squadrò e alzò le spalle.

Fra l’aria polverosa e l’asfissia per la lontananza dal mare, Jubel divenne uomo politico a Kabul, con tutti i problemi relativi al suo nome. Ce la mise davvero tutta. Tornava a casa con i morsi dell’infiammazione alla gola, per aver cercato di far valere le sue ragioni in quelle assemblee dove sembrava che per gli altri contasse solo il potere della voce grossa. Gli acuti, le tamburellanti opposizioni prive di logica, ma ridondanti di ritmo, instancabili lo sopraffecero e di notte mise una coperta sulle spalle e s’incamminò stanco e disorientato.

A volte faceva molto freddo, ma ebbe davvero la sensazione di essere stato dimenticato mentre forgiava il metallo a Minsk. Si sentiva uno fra i tanti. Uguale e nessuno, appoggiato lì dove lo svago è semplice e la gente tanto robusta quanto impalpabile. Fu spesso vicino a raccontare una delle sue storie, visto il clima della compagnia. Visto che quelli, intorno, era come se non ci fossero, ma il rischio di apparire, se pur un minimo, era troppo grosso da correre. Il rischio di lasciare segni, di ferire quel tempo con una rappresentazione di se stesso. Lì si stava rigenerando. Ritemprando. Ne approfittò. Una mattina la forgia non incontrò le sue mani. Poi ne vennero altre che tanto erano uguali.

Fischiettava mottetti sull’autocarro, mentre se ne veniva in su e in giù per i Balcani. Grattava la schiena a quella pelle vecchia di montagne e gli fischiava i mottetti e gli strambotti. Quando poi si fermava a bivaccare ascoltando la notte e corteggiando la luna, recitava due o tre versi liberi, perché solo la terra lo potesse sentire. Con la gente del posto non s’arrischiò mai ad avere rapporti maggiori di quelli di lavoro. Lui arrivava, caricava e ripartiva veloce come un saluto e dolce come mezza sigaretta, fumata con finta noncuranza. Per questo fu rispettato da tutti. Per questo, quando non lo videro più arrivare, nessuno se la prese e tutto continuò normale.

A Magonza la situazione si complicò. Non fu davvero una grande idea quella d’infilarsi in una disputa teologica. Pensava che sarebbe andato via presto e invece quelli non lo lasciarono libero. C’era da risolverla, disse uno dei più anziani, lì erano abituati così e non certo uno straniero di passaggio poteva cavarsela con una soffiata di naso. Non lo avrebbero permesso. Jubel allora dovette mentire un po’, pensò che era per un buon fine e per salvare la pellaccia, e di sé raccontò varie storie, si diede arie, tesse le laudi per qualcuno. Si fece notte e il concilio decise di continuare, ma solo dopo una rinfrescata di birra. Dio volle che quelli s’ubriacarono, allora Jubel uscì di soppiatto e svanì nella nebbia, così come c’era arrivato.

S’era fatto un’altra idea dell’Italia. Non fu la sua vicenda nelle raffinerie di Falconara un’esperienza del tutto negativa, ma il panorama e l’aria erano davvero offuscati dalla sua stessa fonte di lavoro.
Quantomeno mangiò sempre bene e c’era il mare. Mangiò così bene che quasi dimenticò il milione di banane che lo avevano sostenuto nel primo viaggio.
Ma già questa del paragone con le banane fu una prima avvisaglia di una serie che capitarono.
Dapprima nella raffineria s’accorse di una donna di Kabul, poi s’imbattè in degli uomini che portavano notizie delle condizione disagiate di certi bambini a Calcutta. Così prima che qualcuno fosse corso a chiedergli di raccontare storie o di grattargli la schiena recitando poesie, prese l’abrivio e ripartì.

Ed ecco che un giorno, mentre sto seduto nella mia cella del monastero di Sangallo a scrivere alcune frottole, ti sento un tizio alle spalle che fischietta una salmodia di qualche tempo fa. Io non sono un tipo che fa melodrammi e quindi mi giro e vedo Jubel che allarga gli occhi e mi riempie di feste e sospira allelujah!
Poi si caccia una mano in tasca e mi porge questi fogli.
Che notazione! Che notazione stupenda!
Finalmente capisco la musica.
Poi Jubel cambia espressione si volta e riparte.

sabato 6 marzo 2010

il giovane e il poeta

2005
Giovanni faceva colazione. Era perfetto col cappuccino in bocca, sulla sedia di plastica, con lo zaino per terra appoggiato su una gamba. Con la maglietta di protesta, i pantaloni corti, il cuore pronto a ricevere emozioni. S’alzò, pagò, uscì. Ce n’era voluta di fatica per arrivare lì. Le telefonate, le indiscrezioni, i soldi per il viaggio, il viaggio. Prese una lunga boccata d’aria e guardò nel vuoto. Sei passi lo dividevano dall’uscio del bar al portone del “Poeta”. Il suo Poeta, quello che gli aveva regalato la comprensione che nessuno al mondo era mai stato capace di dare. Lo doveva conoscere. Gli doveva dire che la pensavano proprio nella stessa maniera, che le cose che scriveva sembravano stampate sulla sua pelle coi caratteri inchiostrati della sua anonima vita. Fece i sei passi. Era davanti al citofono. Il muro dell’edificio era vecchio e sporco come nella sua testa. Un po’ d’edera ribelle camminava su quel muro, fuggendo l’odore acre di una pisciata notturna. Qualche nome straniero, numeri d’interni e i doppi cognomi delle coppie. Un portone uguale alla sua testa, piuttosto normale. Suonò dove doveva.
“Chi è?” una voce di donna, anziana.
“Salve mi chiamo Giovanni e sono qui per il Poeta…”
“Il Poeta?”
“Non abita qui Norberto Fratta Pumpulit?” fece avendo paura che le informazioni ricevute fossero state erronee.
“Ah, il “Poeta”! Ah, ah, ah, ahhhhrffforgf arf, ah, ah…”
“Sta bene?” Giovanni non capiva se la signora rideva o stava per morire.
“Si, si… mi perdoni… il Poeta: ah, ah, ah cough, cough, arf far farargh, ah, ah…” e aprì.
L’androne buio e cupo. Sapeva d’umidità e di clandestinità. Forse le persone di quel palazzo non si conoscevano neanche. Ci vide entrare persone da sole di notte, o qualche fortuito incrocio tra condomini che non si salutano e preferirebbero non incontrarsi mai. Una bicicletta stava sbracata sotto un sottoscala con la ruota davanti che lo indicava inquisitoria e stanca. Gradini di marmo lisciati dagli anni, era un palazzotto antico, sofferente, esausto di riparare ingrati pigionanti scomodi e egoisti. I gradini gridavano: “Abbiamo visto più piedi noi che mani il piede di San Pietro! Ma non se ne accorge nessuno.” No qualcuno se ne accorse ed era Giovanni il sensibile che amava le poesie del Poeta e da questo amore confortava il dubbio su se stesso di sensibilità. Comunque li salì. Arrivò al piano leggendo i campanelli e ponderando che profilo avrebbe dovuto mantenere. In verità erano mesi che aveva deciso come comportarsi, ma ora gli sembrava cambiare tutto, perché ora era il giorno da vivere. Suonò a Castiglione-Fratta Pumpulit. Un classico Din-Don.

Aprì una vecchina con lo scialle viola sulle spalle e il sorriso sgangherato. Fu pervaso subito da un odore di mobili vecchi. Di elettricità vecchia, di biscotti fatti a casa e vecchi. Di mobili polverosi, di libri, di velluto sulle poltrone, di mobilie calde quando fa caldo e non abbastanza calde quando fa freddo.
La vecchina si limitò a fare rumore senza aggiungere parole:
“Ah, ah, ah, arfargha fargh, cough, ah, eh!”
Si avvicinò da un corridoio una donna più giovane della precedente, ma matura e un po’ scapigliata. Gonna e passi sonanti, lo guardò e indagò la vecchina:
“Il signore è un tuo amico, zia?”
“No, ah, ah, è uno che cerca il Poeta! Ah, ahnfarf, ah, ahhhhhhhrrrrgh…”
“Vorrei parlare con Norberto, signora, il Poeta …”
E allora la nuova donna:
“Il Poeta? Il Poeta! Il Prrrrrunfffff, ah, ah, AH, AH, ah, ah, mi scusi…il Poetarfhagarg, ah, ah… un momento, ih, ih. Adelinaaaaa!” Chiamò nell’aria vecchia di quella casa dove evidentemente si rideva di nulla!

Seguì la donna per il corridoio con le stampe di Roma antica alle pareti, le consolle strette e alte stile falso impero, dove s’affacciavano porte a vetri opachi e misteriosi, sul pavimento di grani di marmo peperino. Entrarono nell’ultima porta a sinistra, l’unica aperta e dentro c’era Adelina che stirava.
“Il signore vuole conferire, ah, ah, col Poet…. Argh, ah, ahhahhà hà, ha…!”
Adelina lo squadrò coi capelli impennati dalle forcine. Esitò un momento e poi, inevitabilmente:
“Il…il…il…PooooOOOOOooooOOOh, oh, oh, uah, haffa fa, ah…” Dopo due minuti in cui le donne si sganasciavano piegandosi sul ventre e tenendoselo stretto tra le mani, Adelina si ricompose un poco, tradendo l’accaduto col rosso delle guance e con gli spigoli della bocca.
“Faccio strada, prego, ih, ih, ih….”
Giovanni uscì nuovamente nel corridoio e osservò la vecchina dall’altra parte che ancora rideva e sbatteva i pugni su un tavolo dell’ingresso. Credette di aver sbagliato qualcosa, ma oramai era lì e doveva continuare. Seguì la domestica per una specie di tinello, presero per una porta e poi su un ballatoio. I panni appesi si riversavano in un cortile interno soffocando tre palme nane. Bussarono ad una nuova porta.
“Signor Poetaaaaaa! Ah, ah….” Adelina non trattenne un accento marcatamente romano poi aprì e disse: “C’è questo giovane per voi…. Poeta, ah, ah, ah, argh, arf (etc.)…”
Giovanni entrò.

A questo punto fra il culmine delle emozioni ammucchiate nei mesi scorsi, la stanchezza e l’incognito del viaggio e questa accoglienza bislacca uscì il più timido dei suoni dalla bocca di Giovanni: “Salve, Maestro!”
Quello si girò distraendosi un attimo dai suoi affari e guardò l’ospite di traverso tra l’infastidito e il meravigliato.
“MAESTRO! Dici a me… maestro… AAAAAAHHHHHHH, AHHAHA, AH, ahhhhh, ahhhrrrrr, ah, ah, ah…..” Giovanni lo riconobbe non si era sbagliato! Rimase impietrito nel non capire tanta ironia; ebbe voglia di fuggire, ma non lo fece. L’altro, nelle convulsioni del riso, si rovesciò una tazzina di caffè addosso disgraziatamente appoggiata sui cuscini del sofà. La sua squadra di calcio alla playstation subì un goal. Fu questo un motivo per tornare alla realtà.
“Cazzommerda!” Cantò il poeta.
“Prego?” Chiese Giovanni.
“Ho perso!” Sentenziò il maestro. “Una partita?” Chiese.
“Io veramente non c’ho mai giocato, io non ho mai… io… il mio interesse è la lettura… io sono venuto qui per…. per conoscerla… per ringraziarla delle sue parole… io… Amo la poesia: la sua poesia!”
“La mia po… la mia po…po….po…po…poerfargh, arf, ahhhhhhhhhhhhhh, auhhhhhhhhhh, uuuuuuuuuuhhhhhhhhh…”
Giovanni avrebbe voluto morire lì, in quell’istante. Ma il caso è avverso e così non volle. Invitato a farlo si sedette su una sedia di legno da osteria e si lasciò bersagliare dai dardi dello sconforto. Poi riprese le forze e il coraggio e protestò: “Fate ridere anche me?”
S’affacciarono le tre donne sulla soglia della porta mentre il Poeta, inciampando fra le risate, s’arrampicò su una libreria e ne estrasse un libro. Il suo libro di poesie, quello che aveva regalato speranze a Giovanni. Glielo porse e rispose: “Sì! Leggi questo! AHHHHHHHH, argh, sarf. Sfruuuuuuuaaaaahhhhhh. Ah, ah… (Etc.)” e a questo suono di pancia che non trattiene l’ilarità s’unirono le donne e il coro suonò il gospel più divertito del mondo.

venerdì 5 marzo 2010

appeso

291220070404a
fredde le dita, ma
m'aggrappo alla penna
sono sul baratro del grattacielo
le gambe penzolano
sulla città.
il mio nemico è salvo
aspetta solo i titoli di coda
dopo che sarò caduto giù.
posizione scomoda vista da qui
la prospettiva non invita
a scommettere su di me.
sembra un'istantanea
scattata ad allungare l'agonia
ci perdo la faccia
e le automobili sfrecciano
sotto il mio sedere.
non ultimi desideri
ne fiori, ne preghiere
ne opere di bene.
ho il tempo ancora di ridere
e trovare la rima.
il verso è umorismo
non è sofferenza.
cadrò.
perchè no?
a un segno stabilito
dal destino, dalla fatalità, dalla pigrizia.
fossi stato più attento
più acuto
sarei comunque qui?
l'intelligenza non serve a nessuno
è solo un peso nella giacca
e muore ogni notte
portandosi a dormire.

giovedì 4 marzo 2010

miricae_09

gli eroi americani hanno sempre il senso di colpa.

(disegno di G. Maruotti)

il signore degli avanzi.









2001
Sedeva composto su una poltrona dallo schienale alto, il signore degli avanzi, vicino ad un telefono. Così l’apparecchio squillava e lui disponeva della sua vita e di quella di alcune anime parlando coi bassi pieni, sonori, potenti del torace. Dall’altra parte della linea ascoltavano e obbedivano... Imponente anche da seduto, dominante. Sembrava lo si vedesse attraverso una lente tanto era grande. Due mani enormi posate sulle ginocchia facevano sudare freddo l’interlocutore al minimo movimento. Un misto di accenti propri di altrettanti dialetti facevano intuire un passato di esperienze. La barba bianca; la pelle come la sezione di un albero, a contarne i giri se ne sarebbe cavata l’età. Ci sentiva poco e vedeva peggio. Gli occhi grigi e bovini oscillavano pesanti, lentamente sotto delle folte sopracciglia nervose che formavano archi. Ogni tanto tendeva i nervi del viso premendo le orbite tra le tempie e gli zigomi per accompagnare il disgusto delle sue parole. Costruiva eccessi, memoria di un carattere inopponibile nel bene e nel male. Anziano, malato, consumato, debilitato non concedeva una possibilità all’incoscienza della piena capacità dei sensi di qualsiasi essere vivente. Dietro di lui i fulmini provavano la resistenza della terra, la pioggia bombardava il suolo, il sole spaccava i campi, la grandine distruggeva i raccolti, le bombe dividevano l’aria e la veduta era a perdita d’occhio.

“Un bel tacere non l’ha mai scritto nessuno!” Mi disse e tutto questo mi fece pensare alle mie qualità. “Bisognerebbe sempre sentire qualche rumore se no si finisce a pensare ai draghi, alle lingue di fuoco; il silenzio angoscia e porta ad avere pensieri orribili che spaventano chi torna a percepire suoni e offendono la sua moralità e spiritualità; e sono inutili le urla. Il drago non ha orecchie per questo è invincibile. Si frappone tra la coscienza e l’orgoglio, in quel turbine nascosto fra i movimenti perpetui della mente, nella discarica della fantasia che ci crea e che rifiutiamo. Sotto le cantine dove si muovono gli iniziati, si nascondono culture che nascondono verità inaccettabili. E gli orrori che si maturano nell’animo aspettano l’indebolimento dei nostri sensi, il sopraggiungere del silenzio e l’oscurità. Ci abbracciano con calore e ci baciano con le labbra rosa e umide... morbido ovunque… lingua di un serpente, poi di fuoco, poi di un drago.” Girò solo le pupille grigie, riconobbe la mia sagoma: “Parlo con chi sa parlare con me! Un bel tacere non l’ha mai scritto nessuno.”

Il signore degli avanzi allungò verso di me una mano da cui penzolavano delle chiavi di un’auto. “Andiamo a prendere la mia bara.” Non so a quante persone sia capitato di sentire una proposta del genere. La reazione più probabile che mi venne in mente fu quella di non dire niente e assecondare il mio interlocutore. Viaggiammo per un’ora e mezza verso nord, arrivammo in una campagna collinare e verde. Nella tenuta i cipressi ci accompagnavano ai margini del sentiero. Caricai la bara sulla macchina, la assicurai con delle corde elastiche e la coprii con dei cellophan e dei giornali.
Il viaggio di ritorno ascoltai in silenzio la storia di un fulmine che il destino in un giorno di tempesta aveva lanciato contro un alto cipresso abbattendolo. La legna ricavata da quel tronco era il motivo del piacevole e tetro odore di cui era ormai impregnata l’auto. Avevo guidato molto e arrivato in città consideravo archiviata anche questa avventura, quando a pochi metri dalla meta ci fermò la polizia. L’imbarazzo era mediato dal senso di estraniamento e dissociazione che quell’esperienza mi aveva già regalato; il signore degli avanzi era seduto di dietro. Il poliziotto si rivolgeva a me e trapelava tutta la sua misera scaramanzia nel trattarmi come se fossi pazzo o ignorante delle regole del saper vivere e del benessere:
“Non si può portare un morto in giro così! – inveiva – In quarantanni di servizio non mi era mai capitato … matto … incosciente… e ora chi l’apre per controllare … cavolo … cavoli … (altri tipi di verdure!)…”
“Non c’è il morto lì dentro.” Dissi.
“E dov’è?”
“Sono qui.” Rispose il mio passeggero.

miricae_08














il pessimismo comico.

mercoledì 3 marzo 2010

lo sceneggiatore

2004
PP. Sono allo specchio. Ho gli occhi gonfi della notte che ho passato. Mi lavo i denti (interno – bagno). Mi prenderei a schiaffi. Ho bevuto anche ieri, ho fumato, ho fatto tardi e ancora più tardi mi sono messo a scrivere in preda agli spasmi della baldoria da sbollire.
Esco.

Scena 02. Esterno – giorno. Vado al bar per la colazione.
”Caffè freddo con una punta di latte e tramezzino prosciutto e mozzarella… appena caldo.”
Cosa penserà di me il barista? Mi guarda lontano. Certo, se ce l’avessi anch’io un bancone con cui difendermi. La pedana per camminare più in alto!...
Invece no. Sono lo sceneggiatore e non ho difese, se mai le creo agli altri: il barista il bancone, l’impiegato allo sportello, il minatore il piccone… ma mi vendico state certi. Il prossimo film ci ammazzo una ventina di baristi, una decina d’impiegati li faccio cornuti e i minatori mi rimangono sotto il crollo della miniera.

Dico sempre così poi non lo faccio mai. Ho pietà, sono sensibile e nelle storie, anche quando vanno male, cerco un po’ di pace da regalare a tutti. A tutti i personaggi. Io sono uno di quelli che cerca di capire anche il punto di vista dell’assassino.

S’avvicina una donna. Fa colazione. Per un attimo ho pensato che venisse verso di me.
“Lei è S?”
”Si sono io” rispondo annoiato.
”Mi hanno parlato molto di lei, alcune mie amiche.. sa per quelle sue qualità… sono disposta a pagare…”
Si. L’ho immaginata così…

Consuma il suo cappuccino, neanche m’ha guardato. E come potrebbe? Io sono lo sceneggiatore. Quello che proprio non appare. Io scrivo: questo fa quello, quello uccide quell’altro. Do loro vita, li faccio muovere, vivere, morire, amare. Come potrebbero accorgersi di me?

Soggettiva mia. Un altro specchio, quello del bar, dietro il barista, dietro il bancone. Ci sono io. No un momento, non è vero! Non ci sono. Cacchio dovrei cambiare mestiere! O forse mi piace non essere e non apparire? Forse amo quel senso di fangosa frustrazione che mi prende quando il regista dice: ma chi l’ha scritta sta scena? E’ orribile! Quando il produttore mellifluo s’avvicina, mi gira un braccio sulle spalle e dice: sarebbe il caso (sublime cortesia del produttore) di tagliare quel riferimento al politico corrotto, al prete laido, all’industria inquinante. Si lo farò. No non rispondo così. Non potrei, devo dire: subito! Non avrebbe senso dire: si, lo farò, quando questo insinuerebbe una possibilità di scelta che non ho…
Basta! Di che mi lamento? Oggi potrebbe essere un gran giorno. Ho appena finito di scrivere una storia sensazionale e sono certo che il produttore la vorrà.

EST. GIORNO-STRADA. Tornano i rumori della strada, siamo fuori dalla mia testa e fuori dal bar.

martedì 2 marzo 2010

ermanno

2002
Un altro giorno. Tornavo a casa dopo l’ennesima giornata trascorsa ai giardinetti a cercare ispirazione spiando la gente. Ogni scrittore dovrebbe capire quando la parabola delle sue idee è caduta più in basso di quanto Cartesio avesse previsto sui suoi assi. La vita ti abitua, però e il pubblico, se scrivi una cosa buona e le successive non offendono nessuno, ti permette di mangiare e si congratula pure con te. I miei “Parapaponziligpomena” furono un gran successo tutto il resto ha arricchito senza sforzo me, l’editore, i librai e i giornalai e ha dato lavoro ai netturbini: mondezza. Ora ho la barba, le ciglia folte, la voce bassa e quando morirò il mio nome sarà sull’enciclopedia. Sono proprio un autorevole autore. Pensare che la barba non mi è mai piaciuta. L’ho fatta crescere perché non mi va di farmela. Se qualcuno vede un ragazzetto con la barba gli dice subito che è un drogato o il figlio di nessuno. A me dicono che sono un genio. Io severo lascio adito a credere che sia così, che anche quando mi riveriscono sono preso da chissà quale astrazione. In testa mi piscio sotto dalle risate. A casa poi, nell’intimità, faccio ancora delle cose cretinissime. Dico ancora non perché la mia firma pesa come un macigno, ma perché ho una certa età e forse dovrei smetterla di fare gli scherzi telefonici. L’altra sera ero ad un convegno con dibattito sull’alterità, "il Sè come un altro": due palle micidiali. Ad un certo punto dovetti intervenire come da programma per dare il mio ricco ed elitario parere. Una fatica a costruire dotte parole sull’aria fritta che non vi dico e allora citai il dimenticato poeta latino “Tito Albucio”, ma approfittando delle mie origini sabine, tendevo a pronunciare una D al posto della prima T del suo nome. Uno spasso. Nessuno si è permesso una risata. Nessuno. Tranne un ragazzino figlio di chissà chi, subito rabbuiato da qualche “sine bibaculo” (imbecille). Dico rabbuiato perché sulla bilancia che da equilibrio alla scelta tra praticità ed estetica delle mie parole è la migliore soluzione da contrapporre alla luce dipinta sul suo volto capace di sorridere e di indovinare il senso della vita. Senso che ho perso e perderà anche lui in onore della maturità. Ho una voglia di morire irrefrenabile. No, mica per una qualche depressione, per quel fatto dell’enciclopedia. Mi rode perché se muoio non lo leggerò io il mio nome e non ho figli a cui lasciare l’eredità di ridere di me, della descrizione della mia intensa attività. Per questo voglio ritrovare quel ragazzino.

Nel mio studio di notte. Le tapparelle sono abbassate, qualcuna sbilenca, sono anni oramai che nessuno le tira più su. Forse mi vergogno delle mie produzioni e non voglio correre il rischio che qualcuno mi guardi. Le librerie coprono le pareti. Tappeti, polvere e i fogli sparsi ovunque, qualcuno con qualcosa di importante, ma chi li ha più guardati? La luce di lampadina opaca penzola sui miei pensieri al passaggio di ogni autobus. Fuori un mondo di illusioni si muove frenetico e inutile. Dentro il mappamondo di speranze col supporto di legno e le sue tre gambe che ho dimenticato di far correre. Lo faccio roteare sul suo perno con una decisa manata. Non pensavo di avere tanta forza. Innaturale. Aumenta di velocità ad ogni giro. I fogli cominciano a vibrare e poi a galleggiare in aria. I libri si consultano da soli come un vocabolario, alla ricerca forse di una conoscenza di quel fenomeno. Io stesso vacillo, mi esibisco in una veronica, perdo l’equilibrio e poi il contatto col suolo e mi accorgo di essere nella tromba d’aria di quell’episodio di “Fantasia” di Walt Disney. “La Notte sul monte Calvo” (a night on the bare mountain) con Mussorgsky che me la suona nei timpani diabolicamente ubriaco. Il vortice si gonfia, si innalza, danza, caracolla e salta fino a puntarsi sul quarantacinquesimo parallelo del mappamondo. Si ferma proprio su Roma e io lì cado perdendo i sensi.
Con gli occhi ancora chiusi il mio corpo cerca la familiarità dello spazio. Non la trova. Né cuscino, né coperta, né distanza gomito-muro. Apro gli occhi e vedo la natura attraverso una bottiglia di cognac. Pian piano il cognac si dissolve e pure la bottiglia, dentro la bocca oceani di guano cullano la carogna di un ippopotamo. Sono in un parco. Parco parco, infatti è quello sotto Castel Sant’Angelo e il febbricitante flusso di questa storia mi porta sotto gli occhi l’agognato ragazzino. Ce ne sono parecchi per la verità e giocano al pallone.
“Ermanno!” Chiama uno.
E lui: “Tiè!” E non gliela passa, ma finta, dribbla e segna.
“Goooo!” Faccio io e mi produco in una danza.
“Ma chi è? Che vò?”
“Bo!”
...
Al termine della partita mi congratulo con la squadra di Ermanno tra le facce interrogative degli atleti.
“Ma chi sei un petofilo?” Mi fa un bambinetto.
“Ma io ti conosco” l’attento Ermanno “tu sei quello dei diti nel bucio. Come ti chiami?”
“Io mi chiamo…” E come mi chiamo… “…Socrate.” Presuntuoso. “Mi chiamo Socrate. E la storia dei diti è meglio che rimanga fra noi.”
Ritorno a casa. È sera. Sono soddisfatto. Nello studio un caos demoralizzante. Il vuoto acustico amplifica il sonoro dei ricordi. Sprofondo nella poltrona di pelle e ascolto ancora una volta le voci dei bambini e i tonfi della palla.