giovedì 25 febbraio 2010

miricae_07

il verso è tutto!
(Gabriele D'Annunzio)

(disegno di A. Ferraro)

mercoledì 24 febbraio 2010

i balli di sopra.

2004
Alfredo andava a letto tardi. Non per lavoro né per divertimento, semplicemente perché la sua vita non aveva molto da raccontare e lui tirava i giorni per le lunghe nell’ansia di sfruttare quei momenti brevissimi e di nessuna importanza che si mescolano nel tempo, ma che hanno un leggero sapore in più.
Tornava a casa per lo più ubriaco o di alcool o di vuoto. Girava la chiave e già s’accorgeva che il giorno era prossimo a rientrare in possesso dei suoi rumori e della sua vivace vacuità. Entrava in casa con la testa un po’ china, si sfilava i calzoni e la camicia e si buttava sul letto ogni volta come potesse essere l’ultima volta, ingannandosi di poter cambiare vita l’indomani. Gli uccellini pigolavano sugli alberi di fronte le sue finestre, le serrande disegnavano strisce di penombra sui suoi oggetti e su lui stesso. La solita motoretta ritardataria spernacchiava fuggendo l’oscurità. A questo punto ogni notte nel dormiveglia, nella ubriacatura, nel respiro pesante e affannato Alfredo sentiva in lontananza un suono ritmico attutito nell’ovatta delle sue orecchie di nottambulo pentito.
Tum-Tum, Ta-Tum… Non c’erano mai forze per andarsi a sincerare di dove provenisse. Forse c’era anche una melodia, ma molto leggera e comunque non ne aveva certezza. Era come se mille piccole scope battessero su un panno adagiato sul pavimento del piano di sopra. La cosa sconcertante di questa sua audizione era poi la marzialità, la compostezza di questa infinità di percussioni gentili. Ma a questo punto l’ipnosi del ritmo l’aveva già conquistato e lui cominciava a vedere quelle architetture improbabili, quei luoghi componibili dal ricordo alla fantasia che il sogno prospetta al sognatore che ora dorme.
La sveglia lo riportava al giorno senza che vi fosse troppa voglia di assaggiarlo simile com’era a tutti gli altri, meglio continuare a masticare la saliva della sera prima ancora un po’, abbracciando il cuscino e pentendosi delle mille sigarette e del bicchiere di troppo. Meglio riafferrare quella fanciulla con cui aveva chiacchierato e che ora s’era portato su una spiaggia dove faceva i castelli di sabbia da bambino, col sogno che agitava le onde facendo crescere il mare. Non era più lei però, ora che aveva richiuso gli occhi, ma era una grassona che gli amici gli volevano affibbiare ad ogni costo e sua madre gli intimava nelle orecchie di sposarsi…
Meglio alzarsi. Grattandosi un po’ il sedere Alfredo scendeva i piedi dal letto in mutande e sudato per riconquistarsi cinque minuti dopo con uno schiaffo d’acqua gelata sul volto. Scrutando i suoi stessi occhi allo specchio cominciava a navigarli nelle striature multicolore indagando perché l’uomo deve vivere?
Un momento dopo ripescava in quegli occhi così suoi e tanto estranei il ricordo del rumore notturno diventato col tempo troppo abituale per non dedicargli delle attenzioni.
Troppo mattina e troppo mattina presto per fare congetture, però quel giorno il pensiero del tam-tam gentile e notturno sarebbe ritornato molte volte.
Passò la giornata rubacchiando vita nelle persone estranee, tentando dialoghi, eccedendo nelle cortesie, spiando le gambe delle ragazzette e le pance dei commendatori, le mani delle cameriere e le scollature delle cassiere, le sbucciature dei ragazzini col pallone e gli anelli delle donne, la fretta degli impiegati e le telefonate dei professionisti…
No! Non voleva assomigliare a nessuno, ma era così difficile: impossibile. Gli altri come lo percepivano? Quelli sugli autobus che lo guardavano seduti in alto e severi non s’illuminavano certo notando com’era diverso e inusuale, anzi guardavano per guardare non dedicando un pensiero alle immagini che sarebbero state loro, della loro vita e forse quindi importanti. Le cameriere erano pagate per dargli un certo numero di sguardi e non ne sprecavano uno in più che non fosse tra quelli per la loro breve compagnia di un’ordinazione. Gli impiegati non lo guardavano proprio per nulla. I professionisti rispecchiavano la loro gioia di non essere diversi da loro stessi in quel curioso passante che era Alfredo e che rappresentava l’inutile altro.
Seduto in un bar Alfredo giocava con il bordo di un bicchiere. Fisso su un pensiero che aveva frantumato l’utensile e spaccato il tavolo per aprire una voragine sul pavimento fino a scoprire il cuore infuocato della terra. Il tam-tam. Le scope sullo straccio! La melodia, se c’era…
“Dobbiamo chiudere, signore.”
La cameriera lo invitava ad abbandonare i pensieri e il bar, con il conto che non s’accorgeva dei danni e della voragine causata da Alfredo. Ma quanto tempo era stato lì? Fuori era notte fonda. Bastava aspettare un po’ magari passeggiando per strada e attendere l’ora per scoprire l’arcano.
Le stelle schiarivano il blu. Gli alberi erano diventati di un celeste sporco. La vita riposava i suoi colori nella notte. Alcune prostitute straniere spazzavano con una scopa il pezzo di marciapiede di loro competenza. Alfredo rise e pensò che era valsa la pena di vivere per vedere questo gioco di pensieri…
Tornò a casa. Si mise in mutande e aspettò ancora. Nell’attesa si sdraiò e quasi il sonno se lo portava via, quando il suono misterioso cominciò a battere. Era il momento. Si concentrò allo spasmo e girò per la casa alla ricerca della provenienza. Ma il suono era costante e distante nella stessa maniera ovunque si spostasse. Il tempo di fuggire l’idea della pazzia e prese una decisione grave rimuginando le sue deduzioni. Andare al piano di sopra! In mutande e ciabatte aprì furtivo la porta di casa e per la seconda volta nella serata rise di se stesso e dei suoi giri di pensieri. Salì le tre rampe nella tromba delle scale che lo dividevano dal piano superiore. Quel tam-tam sembrava leggermente più chiaro.
Avrebbe voluto avere più tempo per ragionare il da farsi, ma l’alba spietata non glielo avrebbe dato. Si fece il segno della croce (chissà perché?) suonò il campanello.
Per un istante il suono si fermò, frazione di secondo in cui Alfredo sfogliò con la testa le fotografie dei suoi possibili eredi, ma il suono riprese e la porta s’aprì.
In realtà entrò quasi subito, ma poiché la porta s’era aperta e non ne era uscito nessuno a incazzarsi per l’ora davvero crudele in cui lui era venuto a suonare, a lui sembrò di essere rimasto immobile per un’eternità sulle gambe che s’erano fatte di cemento.
Dentro una penombra diffusa confondeva le ombre di un enorme salone. Il suono era leggermente più chiaro, ma non si poteva dire di essere nell’origine di un suono che al piano di sotto era sembrato più lontano e quindi più forte. Alfredo si chiuse la porta alle spalle automaticamente e si girò verso le ombre. Erano ombre di uomini (e di donne perché no? Ma tutte uguali!) che facevano un unico movimento ritmato. Non riusciva a quantificarle. Tante. Stavano su un piede solo, il destro ad esempio, l’altro appeso in aria, con il braccio sinistro in alto e il destro in basso. Un secondo dopo cambiavano simmetricamente posizione: piede sinistro a terra e braccio destro in alto…
Questo facevano instancabilmente, di continuo, all’unisono tutte quelle ombre.
Alfredo le fissò per qualche attimo assolutamente ipnotizzato. Gli sembrò come se un’altra coscienza aleggiante, forse dietro le sue scapole (!), apprezzasse, anzi trovasse meraviglioso quel movimento.
Si guardò le mani: ombre. Si guardò le gambe: ombre. Un momento dopo era con tutti gli altri a mimare anche lui quel movimento ridicolo e tribale e non faceva alcuna difficoltà ad andare a tempo. Un momento ancora e noi ci accorgiamo che non esiste nessun Alfredo, ma solo ombre danzanti appartenenti ad una sola coscienza.
La mattina si alzò di scatto. Andò al solito specchio e navigò negli occhi. Era felice. Felice di non essere più nessuno.

lunedì 22 febbraio 2010

miricae_06

parole e altre forme geometriche.

(illustrazione di C. Ghilardi)

la canzone della grande madre terra

11102004 1243

Dove hanno nascosto i tuoi segni?
E i tuoi disegni?
Coperti dall'avidità dell'uomo...

Quando mi dicevi: vieni
lascia i pensieri e
mordi i miei seni!

La tua pelle scura è terra coi nodi
dell'esperienza
e i luoghi della fertilità.

Io ti canto madre terra,
nel ricordo delle notti in cui
ti lasciavi grattare la schiena
tu donna
supina, ubertosa e piena.
Bassa sotto il cielo, lontana dalle stelle.

Nascondi il nostro sogno sotto la tua
morbida gonna
fra la carne delle cosce.
Sempre ospitale sempre madre
sopporti i nostri piedi e
le ferite delle unghie che ti fanno male.

Non lasciarmi solo ora
che ti vengo a cercare.

Fra i dorsi dei balcani
sulle piane del salento
nelle piaghe nel deserto
fra gli ulivi.
Fammi mordere i tuoi seni.

sognare di essere un calciatore!











(sogno di qualche anno fa)
Suonano alla porta.
“Presto,  è necessaria la sua partecipazione all’operazione.” Degli uomini in tuta mi spingono fuori.
“Che succede? Che volete?”
...
Sono su un campo di calcio, quello del circolo dei Vigili Urbani vicino al campo nomadi alla Magliana. Un arbitro vestito con la vecchia casacca nera, la coda, le corna e le orecchie a punta fischia il calcio d’inizio. Improvvisamente si materializzano delle tribune e il campo di periferia diventa una bolgia infernale. Tifosi, fumogeni sulfurei e veri e propri fuochi sugli spalti si uniscono in un turbine caotico ai flash e alle telecamere. Sudo e ho difficoltà a partecipare alla manovra della mia squadra. Il cielo è nero e le nuvole si addensano minacciose. L’aria fredda e secca, si fa fatica a respirare.
Pelè mi passa la palla vicino alla linea del fallo laterale. Un losco figuro con la testa di cinghiale mi viene incontro. Lo supero con una finta, ma il guardalinee mi sgambetta con la bandierina. Cado, ma l’arbitro non fischia; si avvicina il cinghiale:
“Non provarci mai più o ti stendo.”
Sono tutti contro di noi in campo e nelle tribune, tranne un folto gruppetto della comunità Rom che ci sostiene ballando e cantando. Dal mio auricolare intanto mi tengono aggiornato sulle mie quotazioni:
“Se tocchi il pallone due volte in una stessa azione, cinquanta miliardi; se segni, cento miliardi; se sputi inquadrato dalle telecamere, centocinquanta miliardi; ma non starnutire o perdi sessanta miliardi.” Mi viene da starnutire!
Soffriamo il gioco avversario sporco, ma concreto anche perché uno dei nostri appoggiato ad un palo conta dei biglietti da cento.
Viene il momento. Il Papa prende palla a metà campo e dribbla due vallette di Mediaset in una pioggia di fischi assordanti. S’invola sulla fascia e crossa al centro dell’area di rigore dove ci sono io e un nugolo di avversari.
Trattengo respiro e starnuti e salto. Nessuna droga del mondo può farti provare una più intensa astrazione del corpo e della mente come una rovesciata... Goal!
Il guardalinee con una maglia a righe bianconera alza un’improbabile bandierina, l’arbitro cornuto porta il fischietto alla bocca quando mio nonno, stanco dell’inesorabilità dell’errore arbitrale, spara un colpo di pistola e lo uccide e grida: “Vediamo se sbagliate ancora!” Approfitto del frastuono per starnutire e dall’auricolare mi dicono che sono licenziato.
Gli uomini in tuta mi portano via...

sabato 20 febbraio 2010

vinicio vessato

2002
“Buongiorno signor Faciero.”
“Buongiorno e buona passeggiata.”
Vinicio si era alzato presto. Lo zaino con i libri dell’università era pronto dalla sera prima. Prima di uscire si era sincerato di avere tutto: documenti, chiavi, sigarette, soldi, cellulare e tesserino. La madre lo aveva illuso chiedendogli se voleva il caffè. Aveva risposto di sì e poi aveva dovuto constatare che era del giorno prima riscaldato al microonde. Che porcheria! Del resto era meglio berlo, dicono che svegli. La mattina soffriva di bassa pressione, conveniva che mangiasse qualcosa, ma la sua pancia era pronunciata e allora spesso decideva di tenersi il suo pallore, la vista abbassata e la debolezza. La notte dormiva male. Si alzava e si rigirava nella camera senza accendere la luce tanto la settimana enigmistica era già passata per le mani del padre, della madre, delle sorelle e della nonna: finita. Aveva un libro sul comodino acconcio a queste situazioni, solo che leggere assonnati e stanchi è inutile. Non ricordava mai cosa aveva letto e ricominciava da capo ogni notte. Il sonno gli era difficile a causa di alcuni problemi respiratori congeniti che nelle notti migliori lo facevano tossire e starnutire. Cercava di farlo in silenzio perché spesso in quella casa si erano lamentati dei rumori notturni che produceva. Certe volte si destava quando era quasi giorno. La sua finestra dava su un bel cortile alberato. Gli uccellini pigolavano e cinguettavano come in uno zoo, anzi qualche volta avrebbe potuto giurare di aver sentito delle scimmie impedirgli di riprendere sonno. Altre volte non tentava proprio, rimaneva sveglio, sdraiato e pensava. Pensava… Pensava alle sue evasioni. Un inguaribile ottimismo o forse un senso di rinuncia, gli lasciavano percorrere l’esistenza.

Salì sul motorino che non si accendeva mai al primo tentativo e ripensava al senso delle parole del suo vicino. Il signor Faciero usciva sempre presto la mattina. Accendeva la macchina e la lasciava sgasare per una decina di minuti nel garage. Si accertava però prima che la porta che dava sulle scale del palazzo fosse aperta. Si poteva così apprezzare l’infiammabilità del diesel e le sue esalazioni già aprendo la porta di casa al quarto piano. Con un bel respirone appena alzati già era chiaro l’andamento della giornata. Ma non contento l’inquinatore precedeva tutti nel prendere l’ascensore e qui fumava una pregiata sigaretta dei monopoli di stato scendendo negli inferi sulfurei e asfissianti del benzene.

Buona passeggiata non era così il modo migliore di salutare uno che avrebbe dovuto affrontare il traffico invalicabile e perpetuo di una città viziata da sensi unici che lo avrebbero portato, avvolto nello smog, lontano dalla meta. Allora con coraggio avrebbe dovuto trovare la strada con buche, lavori in corso, tamponamenti e passaggi sui marciapiedi per conquistare l’Università. Lì oltretutto le cose non gli andavano molto bene. Aveva decisamente preso un corso che non gli era congeniale, la vita è un intrico di errori! Nasciamo tutti perfetti e fino alla fine intacchiamo la tabula rasa credendo di limitare i danni, ma peggiorando inevitabilmente. Non certo la scuola, che dovrebbe avere il coraggio di abbandonare questo indegno nome, poteva aiutarlo nella scelta della facoltà, ma soprattutto il rispetto dei genitori pesò nell’indirizzarlo su quello che loro ritenevano giusto. Inutile dire che quando si accorsero che le cose andavano male lo accusarono di avere poco carattere. Ovviamente divenne il campione preferito delle statistiche dei benpensanti. L’adorabile parcheggiato, numero un milionemille e tanti che vive ancora con la mamma, capro espiatorio delle lamentele dei docenti, dei genitori, dei raccomandati, dei giornalisti socialmente impegnati, dei politici …

Al quarto tentativo il motorino partì. Si aprirono, però subito due occhietti uno giallo e uno rosso a salutarlo: benzina e olio erano finiti. Salì la rampa del garage con un leggero senso di sconforto, fece trecento metri poi il mezzo si fermò. Il primo benzinaio non era proprio vicino e spingere in quel luglio da trentadue all’ombra non era piacevole. Dopo aver rischiato di essere investito e un paio di pause a riprendere fiato, si trovò a constatare che la benzina aveva avuto un nuovo aumento. Frugò nelle tasche: tremila lire. Solidali con gli automobilisti i benzinai deprecavano quell’inarrestabile crescita di prezzo della loro merce e quindi scioperavano irritati. Vinicio si sedette sulla sella del suo assetato cavallo e aspettò le macchine che avrebbero potuto usufruire del self-service.
“Scusi, mi da tremila delle sue dieci gliele pago?”
“No.”

La domanda la fece più volte fino all’arrivo di una tremante vecchietta che si rivelò disponibile. Intanto aveva perso la prima ora di lezione e i soldi per il cappuccino. Le porse i soldi e per ricambiare la cortesia si applicò all’erogatore. La vettura copriva la colonnina con i display così si fidò degli “ancora” dell’anziana gentile.
“Basta, grazie.”
L’auto partì e Vinicio si accorse delle rimanenti duecento lire. La vecchina in fuga si girò e accompagnò al gesto dell’ombrello un sonoro: “Drogato!”
Rimase alcuni minuti immobile con la bocca aperta e il tubo in mano. Lo ridestò la fine del tempo disponibile per erogare la benzina residua.

venerdì 19 febbraio 2010

sul fondo del mare

22082009E
Solo sul fondo del mare.
Indago ogni conchiglia e chiedo
Informazioni ai granchi.
Cerco un paio di giovani gambe
Che pur qualcuno deve aver visto passare.
Ma niente!
Interrogo ogni patella e fermo i ragnoli.
Scoperchio le vongole
E insisto coi paguri, ma quelli
Non sono ospitali.
Io l’ho vista ne sono sicuro!
Sembra non interessare
A nessuno.

giovedì 18 febbraio 2010

miricae_05

cosa c'è nella scatola?

i giudizi degli altri

..042004
Oh ciao
tu di che hai paura?
Io della nostra differenza e della nostra affinità.
Che strano!
Tu di che segno sei?
Io negativo e arido e tiro pietre nell'acqua...
Ti porto al cinema?
vediamo rappresentare le cose
che non si potranno mai fare, dire, vivere.
Ti spiace
se m'imbarazzo a parlarti
a guardarti con gli occhi che ho?
Andiamo in un teatro e
recitiamo di essere insieme
con un bel lieto fine e noi
che ci baciamo e tutti applaudono e si sentono bene.

mercoledì 17 febbraio 2010

la visita di dolore (scherzo)

INT. NOTTE. Suona un campanello:

“DIN DON”

LUIGI
“Buona sera, lei è..?”

DOLORE
“Dolore. Mi chiamo Dolore e sono spietato! Posso?”

LUIGI
“S’accomodi. E che desidera da me di grazia?”

Dolore entra con un coltellazzo in mano.

DOLORE
“No, guardi, di Grazia io non voglio niente. La lascerei stare dov’è Grazia, fossi in lei. Piuttosto spero che Delusione abbia fatto quello che doveva, altrimenti torno più tardi.

LUIGI
“Uhm, non saprei dirle, sa finchè c’è vita c’è speranza…”

DOLORE
“Senta io non vorrei, ma devo essere insistente, è una questione di Etica. Speranza qui non c’è da tirare in ballo, semmai Illusione, ma da questa la porto via io… no dico: sono Dolore!

LUIGI
“Beh, vabbè! Leviamoci il pensiero.

DOLORE
“Ma dico… ma son questi i modi? Che è Follia che si prende gioco di me? Io arrivo e Pensiero me lo porto con me! E’ il mio aiutante.

LUIGI
“Pazienza!”

DOLORE
“Oh, qui finisce male se lei continua a voler chiamare questa e mandare via quell’altro.

LUIGI
“No, no. Non perdiamo tempo.

DOLORE
“Ma chi se lo è mai coperto Tempo. Capirai, io? Io che sono la puntualità in persona.

LUIGI
“Ma lei non era Dolore?”

DOLORE
“Oh bella, ci mettiamo anche a fare Ironia?”

LUIGI
“Si e dalle! Facciamo un festino a sto punto. Fra quelli che invita lei e quelli che chiamo io ci sarà Divertimento.”

DOLORE
“Questo non doveva mai dirlo! Non si offendono così i sentimenti di una persona! Io sono venuto con tutte le mie migliori intenzioni e lei mi nomina quell’indemoniato. Chiedo giustizia…”

LUIGI
“Mi dispiace deluderla, ma quella la chiedono tutti e non arriva mai!”

DOLORE – in lacrime –
“Basta! Soffri! Tiè!

Lo accoltella.

FINE

miricae_04









le poesie scritte nelle caselle delle parole crociate.

martedì 16 febbraio 2010

Figli di una mamma santa e dell'uva













..012004
Siamo figli dell'uva
confusi nei lavori comunali
tutti uguali
figli di una mamma santa e dell'uva
Ci si allungano le ombre
solo nel fine settimana
a mezzanotte perdiamo le consonanti
alle due le donne
alle sei abbiamo dialoghi con Dio
Ci riuniamo di nascosto
nella chiesa
brindiamo con le bottiglie in mano
e a nostro modo, nel nostro modo
preghiamo.

una richiesta (da me a Carola)













mandarti un immagine?
magari!
queste mani avrebbero meritato un altro padrone.
fanno tutto, eppure...
avrei dovuto educarle, aiutarle, forse essere severo con loro.
mi dicono chi io sono. più spietate di uno specchio.
non c'è bisogno di psicologia, d'interpretazione, approfondimento interiore...
ho la mappa della mia pigrizia e delle mie fatiche.
la linea della vita...
ora so cos'è.
montagne di: "farò domani", "l'anno prossimo però", "ora ho sonno", mille milioni di poi e io sono ancora qua.
se un tempo potevo guardarla credendomi migliore in futuro
ora
so che era il passato.
la buona ventura è dietro
un giorno che ho sottovalutato, mentre tiravo i sassi alle rane
mentre mordevo la testa alle matite.
le parole non sono un conforto.
le immagini non le so fare.

non sono veloce

05M
Non sono veloce.
Perdo tempo sullo scatto. John Fulmine parte e m’ha bruciato. Io ancora penso qual è il piede migliore per cominciare.
Non sono veloce.
Gli altri mi raggiungono e mi superano che io neanche li vedo.
Tu mi dici che è il momento. Me lo dici con gli occhi e col cuore. Io m’inciampo considerando cosa fare: non sono veloce e tu non vuoi aspettare.
John Fulmine mi doppia e mi consiglia di lasciar perdere, non s’è mai visto un corridore lento come me.
La vita mi concede delle opportunità, ma io non sono veloce e non le riesco ad afferrare.
John Fulmine, lui sì, lui sprinta, scatta e sfreccia che mi pare una saetta.
Si prende le mie vittorie e le sue medaglie e, all’arrivo, si prende anche te.
Io arranco da lontano, guardo e penso che è un po’ strano vedere dalla mia posizione i più veloci dal sedere.
Non sono veloce e faccio fatica a tenere il mio passo.

miricae_03



il potere delle labbra non è la parola.

lunedì 15 febbraio 2010

miricae_02

una donna seduta con tre ventagli cinesi in mano.

scena: la cantante nuda


















03102207
c'è un microfono che piove dal buio e c'è una donna morbida e bellissima. canta. è in ginocchio e canta e la passione avvolge il mondo. è nuda e ha gli occhi chiusi e un locale è a bocca aperta, col fiato sospeso a sostenere l'apnea fino all'ultima nota.

è un locale pieno di teste.
è una voce meravigliosa.

il nuotatore totale

Lui stava lì da solo. Ovvero in mezzo al vociare di tutti i bagnanti che s'attardavano a tornare a casa. Guardava il mare. I capelli ormai un po’ lunghi volevano andarsene col vento, ma questo non riusciva proprio a portarseli via da quella fronte e dal collo. S'erano un po’ schiariti durante l'estate. Gli occhi invece s'erano da tempo tuffati e a grandi bracciate di pensieri erano finiti molto a largo, alla fine di tutti i colori che sfoggiava quel mare e fra poco sarebbero spariti all'orizzonte. La pelle era un po’ più ruvida del solito, mangiata dalle ore di salsedine.
La palla rallentava il ritmo dei tonfi lontani, quei ragazzi s'erano stancati probabilmente. Avrebbe voluto salutare qualche amico, ma non c'era più tempo. Il tempo era finito fra gli scogli sbattuto violentemente da una burrasca impietosa... Il sole sull'adriatico tramonta alle spalle delle colline e le ombre s'allungano prima. Qualcuno preparava un sugo per la sera...
Quando il bagnino fece la fila degli ombrelloni da chiudere, aspettò che avesse finito per vederlo imprimere la forza dei suoi polpacci sulla sabbia bianca fino a raggiungere lo stabilimento. Ancora una coppia usciva dall'acqua scambiandosi l'affetto dell'estate. Si asciugarono l'un l'altra, si baciarono, se ne andarono. Allora ebbe l'ultima esitazione: l'amore. Avrebbe voluto fare ancora una volta l'amore, magari proprio sulla spiaggia, come la notte di tanti anni fa. Con quella ragazza giovane e piena d'ardore, con la luna a spiarlo, le stelle a coprirlo, il mare a ritmare i tempi della danza dell'amore. Scacciò con grande sforzo quest'ultimo pensiero. Non era certo quello il momento dell'amore. C'era stato e non sarebbe più tornato. Non aveva rancori o rimpianti femminili particolari. Non era una donna ad averlo portato qui. Questa era una cosa personale e lui lo sapeva bene.
Rise. Si, rise. Di se stesso e della sua povertà. Di se stesso e della povertà di ogni persona del mondo. Rise ancora un sorriso un po’ amaro di chi sa e ha vergogna di sapere. Poi s'alzò e si concesse ancora un momento per guardare. Per guardare il mare. Non si poteva voltare. Non si doveva voltare. Non si voleva voltare.
Prese a camminare. Ora guardava i sassolini della battigia lasciarsi sospingere da quella minima capriola del mare quando è calmo. L'acqua alle caviglie e i piedi sul deserto in miniatura del fondale. Un granchio s'andò a nascondere più in là. L'acqua alla vita. Sorrise ancora quando per l'ennesima volta mal sopportò il freddo del bagnato sul basso ventre. L'acqua attorno al petto, era ora d'andare. Disse "Ciao, sono stato anche bene." S'immerse e si mise a nuotare.
Una bracciata dopo l'altra nella notte che non riusciva ad urlare "Fermatelo!" oppure "Uomo, uomo in mare!". Non si sarebbe più fermato, dritto verso il buio, dritto più in alto del mondo, sicuro più a fondo.

il verme e il mare

un verme sta lì che fa i cacchi suoi. sta coi vermi, fa quello che fanno loro... sai striscia e poi s'infila nella prima mela che capita eppoi la mondezza, il fango, la merda e il blues... queste cose qui. arriva un tipo con un bastone lungo e sottile e col pollice e l'indice raccatta il verme. gli da una pulita se lo guarda, diciamo lo coccola e lo mette in salute, fuori dalla merda e lontano dal blues... diciamo. lo infila in una vaschetta tutta per lui. poi, un bel giorno, lo estrae dalla vaschetta. lo accarezza e lo appicca ad un amo. quello, il verme, soffre e sanguina(?) e finisce in mezzo al mare appeso a un filo. però nessuno se lo viene a mangiare. il pescatore (questo era l'uomo col bastone) si rompe i maroni tira la lenza e il verme si ritrova senza l'amo, senza il sangue(?), senza il dolore, di nuovo nella merda, ma forse senza il blues. si ritrova a cantare stornelli dentro a una tequila e canta i giorni felici in cui era trafitto dall'amo, ma nessuno gli crede...



trova la morale.

domenica 14 febbraio 2010

miricae_01

il giallo è un pretesto.