mercoledì 24 febbraio 2010

i balli di sopra.

2004
Alfredo andava a letto tardi. Non per lavoro né per divertimento, semplicemente perché la sua vita non aveva molto da raccontare e lui tirava i giorni per le lunghe nell’ansia di sfruttare quei momenti brevissimi e di nessuna importanza che si mescolano nel tempo, ma che hanno un leggero sapore in più.
Tornava a casa per lo più ubriaco o di alcool o di vuoto. Girava la chiave e già s’accorgeva che il giorno era prossimo a rientrare in possesso dei suoi rumori e della sua vivace vacuità. Entrava in casa con la testa un po’ china, si sfilava i calzoni e la camicia e si buttava sul letto ogni volta come potesse essere l’ultima volta, ingannandosi di poter cambiare vita l’indomani. Gli uccellini pigolavano sugli alberi di fronte le sue finestre, le serrande disegnavano strisce di penombra sui suoi oggetti e su lui stesso. La solita motoretta ritardataria spernacchiava fuggendo l’oscurità. A questo punto ogni notte nel dormiveglia, nella ubriacatura, nel respiro pesante e affannato Alfredo sentiva in lontananza un suono ritmico attutito nell’ovatta delle sue orecchie di nottambulo pentito.
Tum-Tum, Ta-Tum… Non c’erano mai forze per andarsi a sincerare di dove provenisse. Forse c’era anche una melodia, ma molto leggera e comunque non ne aveva certezza. Era come se mille piccole scope battessero su un panno adagiato sul pavimento del piano di sopra. La cosa sconcertante di questa sua audizione era poi la marzialità, la compostezza di questa infinità di percussioni gentili. Ma a questo punto l’ipnosi del ritmo l’aveva già conquistato e lui cominciava a vedere quelle architetture improbabili, quei luoghi componibili dal ricordo alla fantasia che il sogno prospetta al sognatore che ora dorme.
La sveglia lo riportava al giorno senza che vi fosse troppa voglia di assaggiarlo simile com’era a tutti gli altri, meglio continuare a masticare la saliva della sera prima ancora un po’, abbracciando il cuscino e pentendosi delle mille sigarette e del bicchiere di troppo. Meglio riafferrare quella fanciulla con cui aveva chiacchierato e che ora s’era portato su una spiaggia dove faceva i castelli di sabbia da bambino, col sogno che agitava le onde facendo crescere il mare. Non era più lei però, ora che aveva richiuso gli occhi, ma era una grassona che gli amici gli volevano affibbiare ad ogni costo e sua madre gli intimava nelle orecchie di sposarsi…
Meglio alzarsi. Grattandosi un po’ il sedere Alfredo scendeva i piedi dal letto in mutande e sudato per riconquistarsi cinque minuti dopo con uno schiaffo d’acqua gelata sul volto. Scrutando i suoi stessi occhi allo specchio cominciava a navigarli nelle striature multicolore indagando perché l’uomo deve vivere?
Un momento dopo ripescava in quegli occhi così suoi e tanto estranei il ricordo del rumore notturno diventato col tempo troppo abituale per non dedicargli delle attenzioni.
Troppo mattina e troppo mattina presto per fare congetture, però quel giorno il pensiero del tam-tam gentile e notturno sarebbe ritornato molte volte.
Passò la giornata rubacchiando vita nelle persone estranee, tentando dialoghi, eccedendo nelle cortesie, spiando le gambe delle ragazzette e le pance dei commendatori, le mani delle cameriere e le scollature delle cassiere, le sbucciature dei ragazzini col pallone e gli anelli delle donne, la fretta degli impiegati e le telefonate dei professionisti…
No! Non voleva assomigliare a nessuno, ma era così difficile: impossibile. Gli altri come lo percepivano? Quelli sugli autobus che lo guardavano seduti in alto e severi non s’illuminavano certo notando com’era diverso e inusuale, anzi guardavano per guardare non dedicando un pensiero alle immagini che sarebbero state loro, della loro vita e forse quindi importanti. Le cameriere erano pagate per dargli un certo numero di sguardi e non ne sprecavano uno in più che non fosse tra quelli per la loro breve compagnia di un’ordinazione. Gli impiegati non lo guardavano proprio per nulla. I professionisti rispecchiavano la loro gioia di non essere diversi da loro stessi in quel curioso passante che era Alfredo e che rappresentava l’inutile altro.
Seduto in un bar Alfredo giocava con il bordo di un bicchiere. Fisso su un pensiero che aveva frantumato l’utensile e spaccato il tavolo per aprire una voragine sul pavimento fino a scoprire il cuore infuocato della terra. Il tam-tam. Le scope sullo straccio! La melodia, se c’era…
“Dobbiamo chiudere, signore.”
La cameriera lo invitava ad abbandonare i pensieri e il bar, con il conto che non s’accorgeva dei danni e della voragine causata da Alfredo. Ma quanto tempo era stato lì? Fuori era notte fonda. Bastava aspettare un po’ magari passeggiando per strada e attendere l’ora per scoprire l’arcano.
Le stelle schiarivano il blu. Gli alberi erano diventati di un celeste sporco. La vita riposava i suoi colori nella notte. Alcune prostitute straniere spazzavano con una scopa il pezzo di marciapiede di loro competenza. Alfredo rise e pensò che era valsa la pena di vivere per vedere questo gioco di pensieri…
Tornò a casa. Si mise in mutande e aspettò ancora. Nell’attesa si sdraiò e quasi il sonno se lo portava via, quando il suono misterioso cominciò a battere. Era il momento. Si concentrò allo spasmo e girò per la casa alla ricerca della provenienza. Ma il suono era costante e distante nella stessa maniera ovunque si spostasse. Il tempo di fuggire l’idea della pazzia e prese una decisione grave rimuginando le sue deduzioni. Andare al piano di sopra! In mutande e ciabatte aprì furtivo la porta di casa e per la seconda volta nella serata rise di se stesso e dei suoi giri di pensieri. Salì le tre rampe nella tromba delle scale che lo dividevano dal piano superiore. Quel tam-tam sembrava leggermente più chiaro.
Avrebbe voluto avere più tempo per ragionare il da farsi, ma l’alba spietata non glielo avrebbe dato. Si fece il segno della croce (chissà perché?) suonò il campanello.
Per un istante il suono si fermò, frazione di secondo in cui Alfredo sfogliò con la testa le fotografie dei suoi possibili eredi, ma il suono riprese e la porta s’aprì.
In realtà entrò quasi subito, ma poiché la porta s’era aperta e non ne era uscito nessuno a incazzarsi per l’ora davvero crudele in cui lui era venuto a suonare, a lui sembrò di essere rimasto immobile per un’eternità sulle gambe che s’erano fatte di cemento.
Dentro una penombra diffusa confondeva le ombre di un enorme salone. Il suono era leggermente più chiaro, ma non si poteva dire di essere nell’origine di un suono che al piano di sotto era sembrato più lontano e quindi più forte. Alfredo si chiuse la porta alle spalle automaticamente e si girò verso le ombre. Erano ombre di uomini (e di donne perché no? Ma tutte uguali!) che facevano un unico movimento ritmato. Non riusciva a quantificarle. Tante. Stavano su un piede solo, il destro ad esempio, l’altro appeso in aria, con il braccio sinistro in alto e il destro in basso. Un secondo dopo cambiavano simmetricamente posizione: piede sinistro a terra e braccio destro in alto…
Questo facevano instancabilmente, di continuo, all’unisono tutte quelle ombre.
Alfredo le fissò per qualche attimo assolutamente ipnotizzato. Gli sembrò come se un’altra coscienza aleggiante, forse dietro le sue scapole (!), apprezzasse, anzi trovasse meraviglioso quel movimento.
Si guardò le mani: ombre. Si guardò le gambe: ombre. Un momento dopo era con tutti gli altri a mimare anche lui quel movimento ridicolo e tribale e non faceva alcuna difficoltà ad andare a tempo. Un momento ancora e noi ci accorgiamo che non esiste nessun Alfredo, ma solo ombre danzanti appartenenti ad una sola coscienza.
La mattina si alzò di scatto. Andò al solito specchio e navigò negli occhi. Era felice. Felice di non essere più nessuno.

2 commenti:

  1. Come una delle ombre danzanti, mi riscopro nella coscienza di chi ogni giorno si domanda se è stato capace di fare davvero qualcosa di buono o se è capace solo di lasciar passare il tempo nell'attesa di diventare migliori domani...

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