martedì 2 marzo 2010

ermanno

2002
Un altro giorno. Tornavo a casa dopo l’ennesima giornata trascorsa ai giardinetti a cercare ispirazione spiando la gente. Ogni scrittore dovrebbe capire quando la parabola delle sue idee è caduta più in basso di quanto Cartesio avesse previsto sui suoi assi. La vita ti abitua, però e il pubblico, se scrivi una cosa buona e le successive non offendono nessuno, ti permette di mangiare e si congratula pure con te. I miei “Parapaponziligpomena” furono un gran successo tutto il resto ha arricchito senza sforzo me, l’editore, i librai e i giornalai e ha dato lavoro ai netturbini: mondezza. Ora ho la barba, le ciglia folte, la voce bassa e quando morirò il mio nome sarà sull’enciclopedia. Sono proprio un autorevole autore. Pensare che la barba non mi è mai piaciuta. L’ho fatta crescere perché non mi va di farmela. Se qualcuno vede un ragazzetto con la barba gli dice subito che è un drogato o il figlio di nessuno. A me dicono che sono un genio. Io severo lascio adito a credere che sia così, che anche quando mi riveriscono sono preso da chissà quale astrazione. In testa mi piscio sotto dalle risate. A casa poi, nell’intimità, faccio ancora delle cose cretinissime. Dico ancora non perché la mia firma pesa come un macigno, ma perché ho una certa età e forse dovrei smetterla di fare gli scherzi telefonici. L’altra sera ero ad un convegno con dibattito sull’alterità, "il Sè come un altro": due palle micidiali. Ad un certo punto dovetti intervenire come da programma per dare il mio ricco ed elitario parere. Una fatica a costruire dotte parole sull’aria fritta che non vi dico e allora citai il dimenticato poeta latino “Tito Albucio”, ma approfittando delle mie origini sabine, tendevo a pronunciare una D al posto della prima T del suo nome. Uno spasso. Nessuno si è permesso una risata. Nessuno. Tranne un ragazzino figlio di chissà chi, subito rabbuiato da qualche “sine bibaculo” (imbecille). Dico rabbuiato perché sulla bilancia che da equilibrio alla scelta tra praticità ed estetica delle mie parole è la migliore soluzione da contrapporre alla luce dipinta sul suo volto capace di sorridere e di indovinare il senso della vita. Senso che ho perso e perderà anche lui in onore della maturità. Ho una voglia di morire irrefrenabile. No, mica per una qualche depressione, per quel fatto dell’enciclopedia. Mi rode perché se muoio non lo leggerò io il mio nome e non ho figli a cui lasciare l’eredità di ridere di me, della descrizione della mia intensa attività. Per questo voglio ritrovare quel ragazzino.

Nel mio studio di notte. Le tapparelle sono abbassate, qualcuna sbilenca, sono anni oramai che nessuno le tira più su. Forse mi vergogno delle mie produzioni e non voglio correre il rischio che qualcuno mi guardi. Le librerie coprono le pareti. Tappeti, polvere e i fogli sparsi ovunque, qualcuno con qualcosa di importante, ma chi li ha più guardati? La luce di lampadina opaca penzola sui miei pensieri al passaggio di ogni autobus. Fuori un mondo di illusioni si muove frenetico e inutile. Dentro il mappamondo di speranze col supporto di legno e le sue tre gambe che ho dimenticato di far correre. Lo faccio roteare sul suo perno con una decisa manata. Non pensavo di avere tanta forza. Innaturale. Aumenta di velocità ad ogni giro. I fogli cominciano a vibrare e poi a galleggiare in aria. I libri si consultano da soli come un vocabolario, alla ricerca forse di una conoscenza di quel fenomeno. Io stesso vacillo, mi esibisco in una veronica, perdo l’equilibrio e poi il contatto col suolo e mi accorgo di essere nella tromba d’aria di quell’episodio di “Fantasia” di Walt Disney. “La Notte sul monte Calvo” (a night on the bare mountain) con Mussorgsky che me la suona nei timpani diabolicamente ubriaco. Il vortice si gonfia, si innalza, danza, caracolla e salta fino a puntarsi sul quarantacinquesimo parallelo del mappamondo. Si ferma proprio su Roma e io lì cado perdendo i sensi.
Con gli occhi ancora chiusi il mio corpo cerca la familiarità dello spazio. Non la trova. Né cuscino, né coperta, né distanza gomito-muro. Apro gli occhi e vedo la natura attraverso una bottiglia di cognac. Pian piano il cognac si dissolve e pure la bottiglia, dentro la bocca oceani di guano cullano la carogna di un ippopotamo. Sono in un parco. Parco parco, infatti è quello sotto Castel Sant’Angelo e il febbricitante flusso di questa storia mi porta sotto gli occhi l’agognato ragazzino. Ce ne sono parecchi per la verità e giocano al pallone.
“Ermanno!” Chiama uno.
E lui: “Tiè!” E non gliela passa, ma finta, dribbla e segna.
“Goooo!” Faccio io e mi produco in una danza.
“Ma chi è? Che vò?”
“Bo!”
...
Al termine della partita mi congratulo con la squadra di Ermanno tra le facce interrogative degli atleti.
“Ma chi sei un petofilo?” Mi fa un bambinetto.
“Ma io ti conosco” l’attento Ermanno “tu sei quello dei diti nel bucio. Come ti chiami?”
“Io mi chiamo…” E come mi chiamo… “…Socrate.” Presuntuoso. “Mi chiamo Socrate. E la storia dei diti è meglio che rimanga fra noi.”
Ritorno a casa. È sera. Sono soddisfatto. Nello studio un caos demoralizzante. Il vuoto acustico amplifica il sonoro dei ricordi. Sprofondo nella poltrona di pelle e ascolto ancora una volta le voci dei bambini e i tonfi della palla.

1 commento:

  1. questa storia mi fa pensare a quando, da piccolo, osservavo gli adulti e non riuscivo a credere che fossero stati bambini. tanto meno riuscivo a credere che un giorno sarei diventato come loro. ma un tizio, col volto de prugna e le mani de legno, mi svelo' il segreto che ti permette di rimanere bambino anche nell'eta' senile. me lo scrisse su un bigliettino. ce l'ho ancora in tasca.

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