lunedì 13 aprile 2015

la scommessa



Matteo ha 28 anni e ormai da sei fa lo svuota cantine. Non è una sua impresa, ma di un vecchio amico di sua madre.
I primi due anni il lavoro gli piaceva per via dei soldi che si metteva in tasca. Poi aveva cominciato a esserne insofferente, poi a sopportarlo, adesso a non preoccuparsene. È il suo lavoro. È quello che può fare.
Se ne va in giro sul furgone lasciando guidare l’altro, l’albanese, Dijan, il partner che gli è capitato in sorte e che si tiene perché a quello gli piace di portare il veicolo anche nel traffico, anche quando non si trova posto, anche quando bisogna fare quelle manovre impossibili e faticose per entrare nei garage o districarsi fra vicoli e strettoie.
Dijan che si fa chiamare Giorgio. Un tipo che una volta aveva alzato da solo il furgone con le mani per cambiare una ruota.
Non parlano molto. Non parlano affatto. Fra loro solo i segni convenzionali del lavoro perché Matteo non raccoglie mai qualche invito che l’altro gli fa raccontando di certe avventure erotiche o commentando qualche donna che passa.
Non ha niente da dirgli a Dijan.
Si chinano all’unisono, infilano le dita sotto gli armadi e li sollevano. Sbuffando si inerpicano per strette scale e trovano velocemente il modo di fare uscire oggetti voluminosi da porte piccole e basse.
Lo fanno senza parlare. C’è poco da parlare. Bisogna solo faticare e parlare porta via fiato e energie.
Caricano tutto quello che ha un certo valore sul furgone. Le cose che non ce l’hanno non interessano il principale, per cui Matteo deve far capire al cliente che per quelle cose non hanno più posto oppure che le discariche non le accetteranno o che sono materiali non compresi nello smaltimento, nel prezzo.
Qualche cliente gli allunga un centone, a volte di più, se si portano via anche quelle o se potessero tornare a portarle via. Questo è grasso che cola. Nel senso che il principale glielo permette, possono occuparsene e prendersi i soldi, basta che a lui non gliene vengano rogne.
Matteo, quando accade, lo racconta sempre al principale o gliene chiede il permesso. Quello gli risponde sempre la stessa cosa: non vuole rogne.
A volte rimedia qualche lavoretto da solo, allora chiama il principale, l’amico della madre, e gli chiede se può usare il furgone. Quello gli ripete sempre la stessa cosa: ci vuole ritrovare il pieno e non vuole rogne.
Allora Matteo è costretto a scambiare qualche parola con Dijan, per farsi aiutare. Lo paga sempre, spesso anche di più del suo introito, basta che l’altro guidi.
Qualche volta si è chiesto dell’amicizia della madre col principale, ma quelle domande se le è tenute per sé. Non è affar suo.
Le domande se le è fatte nel periodo in cui era insofferente a quel lavoro e arrivava in ritardo o si dava malato. Allora il principale gli diceva che lui se lo teneva solo per l’amicizia con la madre, mica perché ne aveva bisogno, che se ne poteva pure andare…
Per la verità un po’ di bisogno il principale ce l’aveva, perché si fidava di lui e lui se ne era accorto. E per via di questa fiducia quello si era comprato un altro furgone e aveva preso un altro albanese, così poteva fare due traslochi al giorno.
Poi a Matteo gli lasciava le chiavi dei furgoni, per qualsiasi evenienza, come a uno che non lo consideri solo un facchino.
Ma voleva non dare importanza a questa fiducia, in cambio della quale non era disposto a dargli più soldi.
Matteo si era accorto di tutto questo, ma non gli avrebbe mai chiesto di più. A lui stava bene di lavorare, di mettersi i soldi in tasca e di decidere, ogni tanto, di prendersi una settimana di vacanza.
Ogni tanto Dijan ci aveva provato a dirgli che dovevano chiedere altro denaro perché in fondo avevano anche delle mansioni gestionali, non erano solo trasportatori, ma Matteo lo aveva sempre rimesso a posto bruscamente, a volte anche con male parole.
Da quell’atteggiamento, così deciso, l’albanese aveva dedotto che quello doveva essere in combutta col principale, anche per via di quella amicizia con la madre, e non protestava più.
Matteo ci aveva i soldi in tasca, non come i suoi amici, quelli che si erano messi a studiare. Sempre scannati, sempre spilorci, sempre con la bocca piena di parole e il portafoglio muto.
Non è che a svuotare cantine ci diventasse ricco, ma lui la birra se la pagava da solo e semmai ne offriva qualcuna a uno di quei geni che aveva voluto studiare.
Non aveva niente in particolare contro lo studio, semplicemente sapeva di aver vinto una scommessa col mondo: meglio caricarsi cose pesanti sulle spalle che mettersi a studiare, che vendere aria fritta.
Lui ci aveva provato. Sì per un paio di anni si era preso in giro da solo: studio, mi laureo, magari faccio il commercialista…  Faccio i soldi sui soldi degli altri! Aveva pensato. Faccio i soldi sulle tasse degli altri!...
Ma si era ben presto accorto che ne sarebbero dovuti passare troppi di anni prima di arrivare a un guadagno, e che la competizione era agguerrita: ma quanti erano gli iscritti all’università? E poi, la madre, non ce l’aveva un amico commercialista da cui cominciare…
In più: quel senso di becera povertà degli studenti, anche quelli coi genitori ricchi! Tutti miseri, tutti curvi, tutti infreddoliti, tutti pecoroni.
Una sera se ne stava in silenzio a sentire di malavoglia alcune ambizioni di un gruppo di colleghi in economia e commercio che nel frattempo frugavano le tasche per comprare una birra media in quattro, quando nel locale entrò un tipo coi capelli lunghi e la camicia aperta sul collo. Avrà avuto un paio di anni più di loro, ma sembrava uscito da un film americano per quanto sembrava sicuro.
Questo ordina un whisky molto costoso e offre una bevuta a due ragazze dall’altro capo del bancone che neanche conosceva, per le quali si accontentò di strizzargli l’occhio quando il barista portò loro le birre senza che le avessero ordinate.
Perché quando le due ragazze tentarono di sorridergli, quel tipo si era distratto a vedere i colleghi di Matteo che scollettavano e se ne era incuriosito al punto di avvicinarsi al loro tavolo.
Poi aveva guardato Matteo dritto negli occhi chiedendo quale fosse il problema. Matteo aveva risposto precedendo tutti, semplicemente dicendo: studenti.
Quello allora aveva annuito e, lasciando una grossa banconota sul loro tavolo, aveva sinceramente pronunciato la sola parola: Poveracci!
Poi se ne era andato.
Mentre i colleghi di Matteo gioivano ebeti per quel provvidenziale soccorso, lui era già schizzato fuori dal locale a inseguire quell’uomo.
Una volta raggiunto gli aveva chiesto con fiero impeto giovanile: Perché? Tu che lavoro fai?
Quello aveva onestamente risposto il suo lavoro: operatore ecologico.
Si era a metà degli anni novanta quando, per ragioni al di fuori della logica di Matteo, si era cominciato a chiamare le cose con una sottile correttezza che sapeva di presa per il culo.
Le donne di servizio, come la madre di Matteo, ora si chiamavano: collaboratrici domestiche. I negri: persone di colore. I massoni: lobbisti…
Matteo doveva avere un punto interrogativo disegnato sulla faccia perché quello si sentì in dovere di spiegare: Scarico i cassonetti, spazzo le strade. Il mondezzaio. Faccio il mondezzaio. Tu studia che è meglio.
Ecco. Questa pietà… questa tenera compassione spinse Matteo, più che la banconota di grosso taglio, più che la miseria dei suoi colleghi che l’avevano accettata, a decidere che lo studio non era un buon affare.
E ci aveva azzeccato di grosso!
Sei anni dopo, lui aveva già cambiato due macchine. I suoi amici giravano ancora con quella del padre.
Lui aveva una carta di credito. Lui avrebbe potuto vivere da solo. Non lo faceva per non lasciare sola la madre, però l’affitto lo pagavano a metà.
Lui era già stato in Norvegia, a Cuba e a Londra e chissà in quanti altri posti sarebbe potuto andare se non fosse che già gli era venuto a noia di viaggiare!
La sera del mondezzaio era tornato a casa un po’ incazzato, ma piano piano gli era cresciuta nell’animo una convinzione che lo aveva fatto poi stare bene.
Il giorno dopo comunicò alla madre che avrebbe lasciato gli studi. Quella se ne dispiacque, ma non lo dette a vedere e tirò fuori la storia di un suo certo amico, che lo avrebbe aiutato sicuramente dandogli un lavoro.
Così Matteo è diventato uno svuota cantine e mentre uno dei suoi colleghi di quel tavolo ora fa saltuariamente il cameriere, un altro è tornato a vivere al paese e un altro ancora lavora gratis in uno studio legale e lo chiama: stage!
Lui invece si concede il lusso, ogni tanto, di lasciare qualche bella banconota sul tavolo di chi gli faccia più piacere.
Matteo ha vinto la sua scommessa.

(marzo2015)